In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
Il 27 agosto 2017 per la chiesa cattolica di rito romano è la XXI domenica del tempo ordinario A, che ci propone la lettura della confessione di Cesarea pronunciata da Pietro, nella prospettiva di Matteo. Come domenica scorsa, l’evangelista ci porta nuovamente lontano da Gerusalemme, agli estremi confini settentrionali della Galilea; precisamente a Cesarea di Filippo, città in costruzione per volere dell’omonimo re, figlio di Erode “il grande”, in onore dell’imperatore romano Cesare Augusto. Proprio nei pressi di questa città, alle pendici del monte Hermon, vi è una sorgente che tradizionalmente veniva considerata uno degli ingressi per il mondo degli “inferi”, ovverossia dei morti.
Alla luce degli studi storici, l’episodio narrato nel brano di oggi, soprattutto per quanto riguarda le parole di Gesù, sembra riflettere la luce post-pasquale del Risorto presente in mezzo alla comunità dei primi cristiani; tuttavia è molto probabile che Pietro, prima della morte e della resurrezione di Gesù, abbia attestato una professione di fede nel suo Maestro. Inoltre non si esclude che, già durante il ministero pubblico, Gesù abbia affidato a lui – pescatore di Cafarnao noto con il nome greco di Simone – qualche servizio di tipo pratico, organizzativo, funzionale magari a qualche piano per riunire l’Israele disperso. Molti indizi presenti in questa pagina di Vangelo, soprattutto se confrontata con altre, fanno propendere gli studiosi (come il Meier) per una “retroproiezione” di un evento storicamente avvenuto però dopo la Pasqua di Risurrezione; si possono notare forti analogie con Paolo in Gal 1,15-17, con il Risorto che gli apparve conferendogli una missione. Questo è quel poco che si può affermare con il metodo storico-critico.
Veniamo ora al significato teologico e spirituale, notando comunque alcune particolarità redazionali di Matteo. Ai giorni nostri per sapere cosa la gente veramente pensa di noi possiamo avvalerci di sondaggi di opinione, digitare il nostro nome su un motore di ricerca, oppure – soprattutto se siamo meno famosi – utilizzare applicazioni online come l’ultima del momento, che permette di scrivere “opinioni” anonime sul soggetto recensito, che poi le riceve, le legge e le diffonde. Ai tempi di Gesù ovviamente non era possibile. Pertanto, nella narrazione di Matteo odierna, Gesù pone ai suoi discepoli questa domanda: “Gli uomini, chi dicono che sia il Figlio dell’uomo?”. È interessante anche dal punto di vista metodologico, perché evita di citarsi in prima persona, ma preferisce chiederlo in modo indiretto, per evitare un bias, una distorsione. Si potrebbero poi dedicare molti approfondimenti all’espressione misteriosa “Figlio dell’Uomo” – figura messianica superumana, accennata dal libro di Daniele – che Matteo introduce qui, mentre Marco riporta la domanda in modo diretto: “… che io sia?”. Le risposte sono quantomeno interessanti: Giovanni Battista, Elia, Geremia e – più vagamente, aggiunge Matteo – uno dei profeti, senza sbilanciarsi troppo. Ciascuno di essi ha un peso ma nella storia del passato di Israele; tutti sono stati perseguitati, vuoi dal potere civile, vuoi da quello religioso. Pensiamo solo a Geremia, emblematico profeta sofferente del Dio di Israele. Nessuno però ha menzionato Gesù, in altre parole nessuno ha compreso la Sua novità.
Ma lo scopo, per Lui, era primariamente quello di capire come si collocavano i suoi discepoli di fronte alla Sua persona. Allora, più direttamente, chiese loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Può essere strano, dal momento che siamo noi abituati a fare domande a Dio – e su Dio – accettare che talvolta sia Gesù a farle ai suoi discepoli, e anche a noi. Qui allora i padri gesuiti Filippo Clerici e Silvano Fausti invitano tutti a porsi la domanda: “Rispetto a quello che dice la gente, rispetto a quel che dice anche il catechismo, rispetto a tutte quelle cose che hai imparato, chi è Gesù per te, cosa significa nella tua vita?”. Ad ogni modo è Pietro a fornire la sua idea: “Il Messia”. Nella versione di Matteo, il discepolo aggiunge: “E il Figlio del Dio vivente”. Con il primo si intende la figura di un nuovo re nazionale come Davide, in grado di unificare Israele, liberarlo dai romani e governarlo politicamente secondo giustizia. Già identificare il Messia tanto atteso e desiderato con quel Gesù, pacifico e presente in carne ad ossa davanti a lui, anziché con figure del passato, è una novità; ma con il secondo titolo Pietro arricchisce la sua risposta. La novità è soprattutto l’aggettivo vivente. Notiamo la mano di Matteo che, di fatto, in poche righe ha accostato tre titoli cristologici, ognuno dei quali si trascina un immaginario simbolico molto ampio e non completamente sovrapponibile: Figlio dell’Uomo, Messia, Figlio di Dio. Qui, tuttavia, è quel vivente ad essere interessante, perché guarda in avanti. Non come la moglie di Lot che “guardò indietro e divenne una statua di sale” (Gn 19,26), bensì proiettato nella dinamicità della relazione e nel progresso della comprensione. Davvero è animato dal soffio dello Spirito! In tal senso possiamo comprendere il gioco di parole tra Pietro e la pietra su cui Gesù promette di fondare la sua Chiesa, guardando in avanti; non a caso tutti i verbi sono al futuro, sono promesse. Siamo sempre in costruzione, come lo era Cesarea di Filippo; Abramo fu definito roccia (cfr. Is 51,1-2), ma una roccia che si mise in cammino.
Però l’evangelista Matteo, pur avendo un occhio di riguardo sia per Pietro, sia per la comunità ecclesiale, accanto alla “beatitudine” che Gesù pronuncia su di lui, riporta anche una “maledizione” poche righe dopo. Purtroppo il testo liturgico lo spezza, ma il brano prosegue con Pietro che non vuole accettare il destino di sofferenza, morte e resurrezione che si prefigurava per Gesù. Il quale già lo aveva chiamato “figlio di Giona”; forse perché, come il “profeta della balena”, anche lui sarebbe fuggito lontano dal Signore, dissociandosi dal suo progetto. Possiamo pensare a un Pietro che resta sbalordito, di sasso; poi gli escono alcune parole, che suonano grosso modo così: “Ma cosa stai dicendo, Gesù? Spero che Dio non ti castighi, rendendosi conto che sei incapace di intendere e di volere. Il Messia non può morire”. La replica, altrettanto accesa, è una maledizione; Gesù lo chiama “Satana” e lo invita a camminare dietro a Lui, anziché essere una pietra di inciampo (skandalon). Lo stesso Pietro, che poco prima aveva riconosciuto la relazione di Gesù con il Dio Vivente, ora ritorna a pensare “secondo gli uomini”, come quelli che avevano già idee “pietrificate” su Gesù, come Satana voleva offrire a quest’ultimo “tutti i regni del mondo e il loro splendore” (Mt 4,8-9) direttamente, senza sofferenze, eccetto quella di prostrarsi di fronte a lui, anziché al Padre. Ma Pietro fu santo – nonostante i fraintendimenti e persino i tradimenti – perché alla fine seppe anche mettere in discussione la propria idea che aveva su Gesù, confidando nella fedeltà creativa del Dio di Israele.
Se secondo una tradizione una pietra avrebbe lapidato Geremia, secondo un’altra invece sarebbe stato salvato da Dio che lo avrebbe nascosto dietro una pietra. Il Salmo 118, in un contesto differente, parla di quella “pietra scartata dai costruttori” che è divenuta “la pietra d’angolo”. C’è chi vede nell’ambivalenza dei significati che ha il termine “pietra” una differenziazione dell’atteggiamento di Pietro prima e dopo la Resurrezione; dal canto mio, con altri autori preferisco mantenere la contraddizione presente e prima e dopo. Infatti, come non pensare ai numerosi scandali che ancora recentemente hanno coinvolto la nostra comunità ecclesiale? Ma più in generale, già nel 1967 fu papa Paolo VI ad affermare che “il papa – lo sappiamo bene – è senza dubbio l’ostacolo più grave sulla strada dell’ecumenismo”. Il papa è l’ostacolo – il vero e proprio scandalo – affermava il vescovo di Roma in persona, che al contempo metteva in guardia da chi avrebbe pensato di poter rimuovere ogni problema eliminando il primato petrino; questo deve piuttosto essere ripensato come “primato di servizio, di ministero, di amore” (Ecclesiam Suam 114). Primato di ecumenismo, potremmo dire; quel primato che si manifesta nel fare il primo passo sulla via dell’unità dei cristiani, come ha fatto papa Francesco, quando durante il viaggio in Turchia nel novembre 2014 ha detto che “per giungere alla meta sospirata della piena unità, la Chiesa cattolica non intende imporre alcuna esigenza, se non quella della professione della fede comune”. Ma il fatto di aver compiuto per primo questo enorme passo in avanti per l’ecumenismo, dimostra di aver adempiuto completamente al primato – o, se si preferisce, servizio – petrino.
Forse ho fatto un repentino salto da Pietro apostolo al Papa che, da cattolico, può venire spontaneo; in realtà sull’interpretazione dell’incarico dato a Pietro si sono create molte divisioni: alcuni vi hanno visto un ruolo affidato solo a Pietro e non trasmissibile, altri rifacendosi alla facoltà di perdonare i peccati in Gv 20,23 l’hanno esteso a tutti i vescovi o alla chiesa intera, poi c’è chi ha sottolineato la differenza tra Pietro e Pietra ed essa è stata identificata vuoi in Cristo-Roccia, vuoi nella fede espressa. È questo il caso ad esempio di Agostino d’Ippona: “Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». […] Le chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l’intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell’universalità e dell’unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. È ciò che intende dire Cristo […] quando si rivolge ad uno vuole esprimere l’unità”. Il medesimo Agostino la spiega anche in questo modo “… io edificherò la mia chiesa, vale a dire su me stesso, che sono il figlio dell’Iddio vivente”. Prima di lui, Origene sosteneva che se anche noi avremo fatto una confessione di fede come Pietro – “non perché ce lo abbia rivelato la carne e il sangue, ma perché è brillata nel nostro cuore una luce dal Padre che è nei cieli” – diventeremo Pietro, perché pietra è ogni imitatore di Cristo; su ogni pietra di tal genere Dio edifica la sua Chiesa. Cristo è la pietra spirituale; chi ne attinge prende il nome di pietra e, divenendo anche membra di Cristo, può essere chiamato anche “Cristo”, derivando da Lui questo nome, e “Pietro” dalla pietra. E la potenza della morte non avrà l’ultima parola su di noi, perché come Cristo abbiamo vinto la morte! Evidentemente più interpretazioni sono plausibili, se accolte in uno sguardo dinamico, senza “pietrificarsi” su una di esse soltanto; perché Gesù fu una “pietra viva” e allo stesso modo possiamo essere “pietre vive” (1Pt 2,4-5).
Concludo ricordando che gli ipocriti furono maledetti da Gesù perché, come i buttafuori, non entravano né lasciavano entrare nel Regno dei Cieli (cfr. Mt 23,13). L’amministrazione delle chiavi – ossia la testimonianza della presenza del Dio vivente – a noi affidata dovrebbe al contrario ispirarsi al suo opposto, ai “buttadentro”, cioè questa beatitudine: “Beati voi che spalancate il Regno dei Cieli davanti alla gente; lasciate entrare, ed entrate!”.
Lascia un commento