Introduzione alla lectio divina su Mt 22 1-14
12 ottobre 2014 – XXVIII domenica del tempo ordinario
1 Gesù riprese a parlare loro con parabole e disse: 2 «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 4 Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: «Dite agli invitati: Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!». 5 Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7 Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8 Poi disse ai suoi servi: «La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze».10 Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. 12 Gli disse: «Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?». Quello ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: «Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti». 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Il banchetto di nozze
Eugène Burnand (Moudon, 30 agosto 1850 – Parigi, 4 febbraio 1921)
Se non ponessimo estrema attenzione nella esegesi di questo brano di Matteo rischieremmo di avallare pericolose (e soprattutto false) idee di Dio. È possibile che ci sia somiglianza (come precisa lo stesso evangelista “Il regno dei cieli è simile ad un re”) tra un Re che appare permaloso e vendicativo ed il Dio di Gesù Cristo?
In realtà, l’esame del contesto narrativo in cui si inserisce il brano e della prospettiva teologica della parabola matteana escludono in radice questa possibilità e ci permettono di comprendere meglio i numerosi e complessi significati allegorici che sono contenuti nel racconto.
Subito dopo l’ingresso messianico del capitolo 21 del vangelo di Matteo, si consuma, infatti, lo scontro aperto e frontale di Gesù con le autorità giudaiche, uno scontro che si snoda attraverso la cacciata dei profanatori dal Tempio di Gerusalemme, la maledizione del fico (v. 19, “non venga da te mai più frutto in eterno”), i dubbi sull’autorità di Gesù (“con quale autorità fai questo?”), la parabola dei due figli mandati nella vigna (“i pubblicani e le prostitute vi precedono nel Regno di Dio”) ed, infine, attraverso la parabola dei vignaioli omicidi (“il Regno di Dio sarà tolto a voi e sarà dato ad una nazione che gli farà produrre frutti”), cui segue immediatamente il nostro brano.
Per il Gesù di Matteo, che non fa comunque mistero di risentire delle tensioni polemiche tra ebrei e protocristiani, la questione dell’identità del popolo di Dio appare centrale ed ineludibile: esso è costituito esclusivamente dal popolo eletto, ossia da coloro che appartengono alla nazione di Israele? Da un gruppo territorialmente ed etnicamente prescelto da Dio nell’Antico Testamento, nonostante la sua storia di continue infedeltà?
È il dubbio che aveva attraversato anche Paolo quando scriveva in Rm 9, 6-11 che “non tutti i discendenti d’Israele sono Israele, né per il fatto di essere discendenza di Abramo sono tutti suoi figli, ma: In Isacco ti sarà data una discendenza ; cioè: non i figli della carne sono figli di Dio, ma i figli della promessa sono considerati come discendenza. […] anche Rebecca ebbe figli da un solo uomo, Isacco nostro padre; quando essi non erano ancora nati e nulla avevano fatto di bene o di male – perché rimanesse fermo il disegno divino fondato sull’elezione, non in base alle opere, ma alla volontà di colui che chiama”.
La posizione dell’evangelista è che c’è una fondamentale differenza tra l’esser chiamati (il termine invitato è reso in greco dal termine keklemenos, chiamato, da cui anche ecclesia), l’esser radunati (v.10, il termine “radunarono” è sunagoghen, da cui anche sinagoga), l’essere invitati a far parte di un popolo da un lato, e, dall’altro, farne parte davvero, essere “eletti”. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti.
La simbologia è chiara: c’è un “uomo re” che prepara una festa nuziale per il figlio (che invero mai compare nel racconto; di fatto, queste nozze del figlio appaiono comunque un segno di contraddizione per molti) e manda a chiamare attraverso i suoi schiavi coloro che sembra siano stati già invitati (in greco, è usato il tempo perfetto passivo, si sottintende da Dio).
Non ci sono giri di parole: gli invitati non vogliono venire, nonostante siano stati sollecitati a più riprese. “È il mio pranzo” (ariston), “Venite alle nozze!”. Il richiamo del re è forte, ma non ne viene colta l’urgenza da parte di coloro che erano stati designati per condividere la gioia speciale del Re. Sembra che questi invitati non solo non vogliano partecipare al banchetto, ma di fatto non riconoscano al Re il suo stesso essere Re (quale suddito si sarebbe potuto tirare indietro di fronte all’invito di un re).
Chi è distratto dai propri affari, chi si ribella con violenza all’invito dei servi (evidentemente fraintendendo l’insistenza e ritenendola una provocazione). Dunque, distrazione e omicidio. Due atteggiamenti differenti solo nello stile, molto spesso il superficiale uccide alla stesso modo di chi impugna un coltello. Con l’indifferenza. In questo caso, come nel caso di Gesù, superficialità è omicidio. Non si percepisce a sufficienza che all’urgenza della festa non si può opporre il lavoro o le fantomatiche “cose serie” di cui riempiamo le nostre vite. Come quando un bimbo vede respinta la richiesta di gioco da parte di genitori impegnati. Il rifiuto della festa è un rifiuto della relazione, la festa non è rimandabile.
Questo consente a Matteo di introdurre un ulteriore concetto nell’economia ecclesiale dei salvati: l’indegnità.
Il Re colpisce con vigore tutta la comunità degli invitati renitenti (non solo gli omicidi, ma l’intera città è messa a ferro e fuoco, profezia ex eventu rispetto alla catastrofe di Gerusalemme del 70 d.C.) e allarga l’originale piano di salvezza, estendendo la chiamata a coloro che si trovano nelle periferie (Luca, come nell’immagine sopra raffigurata, aggiunge nel brano parallelo poveri, storpi, ecc.), nei crocevia che portano fuori dal centro cittadino.
L’invito è rivolto a tutti (“chiamate alle nozze quanti troverete”), non ci sono selezioni, unico criterio di ammissione è la voglia di fare festa con il Re e poi tutti i presenti, siano essi malvagi o buoni, possono avere accesso. Nella nuova Chiesa, non si fa distinzione tra buoni e cattivi, tra santi e criminali, non si fa meritocrazia o moralismo di bassa lega. Matteo ha esperienza che la zizzania convive con il grano buono e non tocca al fedele fare selezione.
Infatti, la scena cambia al v.11 e ci si trova nella variegata comunità dei commensali convocata per i festeggiamenti. Qui non ci sono più schiavi (douloi), ma servitori (diakonoi). Qui uno solo è colui che “guarda”, che fa le differenze fra i commensali e questi è il Re.
Tra coloro che fanno festa, ve n’è uno che non ha la veste bianca (e si badi nella prassi orientale la veste era donata da colui che invitava), forse l’ha sporcata o rovinata.
Richiamando Ap 19,7 (“Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente”. La veste di lino sono le opere giuste dei santi.”) si comprende che la veste bianca ha a che fare con quell’indegnità che aveva caratterizzato gli originari invitati.
C’è un amico del Re, che non sa spiegare come ha fatto a perdere la sua veste. Rimane senza parole. Come i cristiani che non sanno più rendere conto della speranza che è in loro.
L’amicizia del Re non basta. È necessaria anche l’amicizia dell’uomo.
Lorenzo Jannelli
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