“A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà.”
E’ questo l’incipit dell’Appello ai liberi e forti, elaborato dalla Commissione provvisoria del Partito Popolare Italiano, diffuso il 18 gennaio 1919, e rivolto a quanti, «uomini moralmente liberi e socialmente evoluti», erano disposti a impegnarsi a sostenere un progetto politico e sociale per l’Italia all’indomani della Prima guerra mondiale.
Un documento estremamente breve che, come sostiene il gesuita Giacomo Costa, in poche righe, riesce ad articolare in modo coerente uno sfondo valoriale preciso, una visione antropologica e politica di riferimento, una lettura della società e dei suoi problemi che conduce a identificare misure pratiche da inserire in un programma politico.
Di esso, qui, ne facciamo memoria non come reperto del passato, perché correremmo il rischio di sopprimerne la generatività e la capacità di interpellare ancora il presente, ma come strumento vivo, che continua a rappresentare una fonte di ispirazione per le modalità con cui si approcciano i problemi nuovi e quelli che nel tempo si sono modificati ma non sono stati risolti.
L’Appello costituì, allora, la carta fondativa del Partito popolare italiano, un partito di massa, un soggetto politico che, soprattutto, dava ai cattolici, dopo anni di difficoltà, di incertezze e, perché no!, di emarginazione – ma direi, anche, di autoemarginazione – cittadinanza piena nello Stato unitario, esito delle lotte risorgimentali. Con quell’atto fondativo si chiudeva infatti la lunga stagione del non expedit, cioè il divieto ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni e in genere alla vita politica dello Stato italiano.
Quel divieto, sanzionato con decreto della Sacra Penitenzieria vaticana del 10 settembre 1874, che come ha evidenziato Gabriele De Rosa aveva finito per estraniare i cattolici dalla vita pubblica nazionale, venne di fatto revocato nel 1919 da papa Benedetto XV proprio per consentire ai cattolici di aderire al Partito popolare. Il Partito popolare, nuovo soggetto politico e capolavoro dell’impegno fattivo e delle intuizioni geniali di don Luigi Sturzo, affondava le sue radici nella storia della presenza attiva del Movimento cattolico italiano e nell’esperienza della Democrazia cristiana di don Romolo Murri, il prete “sociale” marchigiano, fondatore della “Lega democratica nazionale”, entrato in polemica con le gerarchie ecclesiastiche, sospeso a divinis e poi scomunicato nel luglio del 1906 come modernista, la dottrina che proponeva una lettura razionalista della stessa religione. Il Partito popolare costituì allora, infatti, il punto di arrivo di un cammino difficile e accidentato che aveva segnato il mondo cattolico italiano soprattutto a partire dall’enciclica Rerum novarum di papa Leone XIII enciclica che, come acutamente evidenzia Scoppola, liberò la Chiesa dalle dalla pregiudiziale antidemocratica, che fino ad allora l’aveva contraddistinta, ricomprendendo la democrazia fra i regimi leciti.
Un cammino che, in qualche modo, era stato parallelo proprio al processo di attenuazione e, infine, di soppressione dello stesso non expedit. Di questo cammino, senza ombra di dubbio, proprio don Sturzo ne era stato l’alfiere e il riferimento più alto al punto, tale da non potersi disgiungere, come scrive Giorgio Candiloro, la storia del movimento cattolico e del Partito popolare dalla personalità dell’uomo che ne era stato il principale fondatore e, poi, il leader indiscusso. Proprio il prete calatino – che aveva anche partecipato alle vicende della Democrazia cristiana del Murri, senza tuttavia condividerne le asprezze polemiche che avrebbero provocato le reazioni di papa Pio X e della Santa Sede, in genere – si era fatto carico di portare a compimento il progetto politico che aveva a lungo appassionato l’opinione pubblica cattolica italiana. Sturzo, infatti, dal famoso discorso pronunciato proprio a Caltagirone alla vigilia del Natale del 1905, aveva teorizzato e tracciato le linee guida di un partito “aconfessionale” e “democratico”, cristianamente ispirato, tale da consentire ai cattolici di partecipare, in piena autonomia, alla vita pubblica nazionale ma, rendendosi conto delle perplessità delle gerarchie ecclesiastiche, che teneva a non essere direttamente coinvolta, si era mosso con estrema cautela, lavorando con impegno e continuità a sensibilizzare il mondo cattolico pazientemente, e fiduciosamente, in attesa del mutamento dell’indirizzo vaticano. Sturzo infatti, era pienamente consapevole che il papa, si trattava appunto di Pio X, si sarebbe messo di traverso rispetto ad ogni ipotesi di fondazione di un partito cattolico sul modello del Deutsche Zentrum, il partito d’ispirazione cattolica fondato in Germania nell’ultimo quarto del secolo XIX.
Le preferenze del pontefice, sicuramente conservatore e intransigente, andavano invece ad una partecipazione che vagliasse il caso per caso – come di fatto era avvenuto nel 1913 a seguito del cosiddetto “Patto Gentiloni” che portò alla attenuazione del non expedit con la conseguente elezione di una ventina di deputati cattolici al parlamento del Regno – senza la previsione di strutture stabili, unitarie e nazionali. Sturzo, saggiamente, piuttosto che tentare di bruciare le tappe, si impegnò a lavorare sui tempi lunghi con lo sguardo attento a cogliere le occasioni che si sarebbero potute manifestare. E l’occasione buona gliela diede il radicalizzarsi del conflitto politico e sociale in Italia dopo la fine della Grande Guerra, conflitto sul quale avevano notevolmente inciso, gli echi della Rivoluzione d’Ottobre. Le preoccupazioni per l’avanzata del socialismo massimalista rivoluzionario ebbero, infatti, un effetto decisivo sull’atteggiamento della Santa Sede dove ora sedeva sulla cattedra di Pietro un altro Papa, di stampo diverso rispetto al suo predecessore, un papa che aveva levato la sua voce contro “l’inutile strage” e che appariva particolarmente attento a cogliere i cosiddetti “segni dei tempi” come lo era stato Benedetto XV. Questo pontefice, aveva ben compreso che la presenza nel dibattito politico italiano di un partito “aconfessionale”, e non confessionale come l’avrebbero voluto padre Agostino Gemelli e padre Francesco Olgiati, e però ispirato ai principi cristiani, sarebbe stato sicuramente un’ulteriore garanzia per la libertà della Chiesa. Conseguenza di questa consapevolezza fu, appunto, la decisione di abolire il non expedit, già fortemente attenuato rispetto alla originaria formulazione, abolizione fortemente sollecitata dallo stesso Sturzo. L’abolizione del non expedit, che era, peraltro, un decisivo passo avanti nella chiusura della “Questione romana”, significava, come si è detto, libertà per i cattolici di partecipare alla vita politica nazionale. Interessante è rilevare che, nonostante tutto questo, la Chiesa, nonostante ne fosse indirettamente coinvolta, tenne a respingere ogni e qualsiasi attribuzione di paternità nella nascita di quello, e qui riporto un passaggio delle memorie del segretario di Stato del tempo, parlo del cardinale Pietro Gasparri che sarebbe stato il grande regista del Concordato fra Stato e Chiesa del 1929, nel quale trattando del Partito popolare, che si definiva “un partito come tutti gli altri, con un programma che però si avvicinava di più ai principi cristiani”. Luigi Sturzo, nel ’19, era dunque riuscito là dove molti avevano fallito, e tutto questo, come scrisse Pietro Scoppola “fu un vero capolavoro di tempismo e di sapienza politica.”
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