Pranzi di Natale, raccolta fondi e generi alimentari, serate di beneficenza, sembra questo, da sempre, il periodo dell’anno più propizio per realizzare iniziative di solidarietà nei confronti di chi ha più bisogno. Che dire? Il rischio che la coscienza di chi partecipa a questi momenti possa trovarsi appagata è purtroppo alto, non a caso Gesù ci mette in guardia dai meccanismi autogiustificativi e compensatori. C’è poi il rischio, non meno grave, che iniziative di questo tipo, per quanto lodevoli, ci facciano dimenticare che il problema della povertà per essere risolto, o almeno ridotto, richiede strumenti più complessi di quelli promossi saltuariamente.
Ricordo ancora le critiche della mia insegnante di filosofia quando entrò in classe un sacerdote per chiederci di partecipare ad una raccolta di fondi per i poveri. Erano gli anni settanta e la prospettiva di poter cambiare radicalmente la società era fortissima, i gesti di beneficenza venivano quindi visti dai settori più impegnati del mondo politico e culturale dell’epoca, non solo come marginali, ma anche e ben più negativamente come “funzionali”, così si diceva allora, a mantenere lo status quo e nascondere le vere cause della povertà. La mia insegnante di filosofia era una cattolica impegnata socialmente e, senza essere comunista, aveva assunto, in maniera consapevole credo, alcuni elementi di analisi marxista per criticare tutti quelli che, come quel sacerdote, anziché combattere le ingiustizie sociali a livello strutturale si limitavano a fare, quando andava bene, i “crocerossini” della storia (uso, con un po’ di nostalgia, un linguaggio che andrebbe studiato non solo per amore del passato, ma perchè ricco di significati anche per l’oggi!). Non sto proponendo di recuperare il marxismo, già inadeguato 40 anni fa, per comprendere gli “ingranaggi” della società attuale, ma certo nessuno può pensare che l’agire del cristiano possa esaurirsi in attività di volontariato più o meno occasionali.
La dottrina sociale della chiesa ci spinge ad avere uno sguardo più ampio del contingente, per poter sperimentare la solidarietà non solo come virtù morale, ma anche come principio sociale: “la solidarietà deve essere colta, innanzi tutto, nel suo valore di principio sociale ordinatore delle istituzioni, in base al quale le “strutture di peccato”, che dominano i rapporti tra le persone e i popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante la creazione o l’opportuna modifica di leggi, regole del mercato, ordinamenti” (Compendio della dottrina sociale della chiesa, n. 193).
Riprendere concetti come quello di “struttura di peccato”, ancora poco sviluppato, potrebbe aiutare ad uscire da una visione troppo angusta della solidarietà come vago sentimento di compassione che può rappresentare, al massimo, solo un iniziale punto di partenza per cominciare ad agire, ma non per percorrere un cammino che richiede, come sappiamo, un aggiornamento costante di conoscenze specifiche. Oggi il buon samaritano, ha scritto il cardinale Martini, dopo avere aiutato la vittima, si preoccuperebbe di cercare le cause dell’accaduto per evitare che possa ripetersi. E’ bello gioire per ogni pasto caldo garantito ai poveri, ma sarebbe meglio se i poveri non avessero più bisogno della mensa per sfamarsi perchè hanno trovato un’occupazione ed un’integrazione sociale finalmente dignitosa.
Giovanni Paolo II scriveva che “il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale” (Laborem exercens). Dalla dottrina sociale della Chiesa emerge chiaramente che l’umanizzazione della vita sociale passa soprattutto dalla soluzione del problema del lavoro. Come cattolici dobbiamo quindi capire che la crescita imponente della povertà in Italia (vedi recenti dati ISTAT) non può essere contrastata con le mense per i poveri, ma con la creazione di posti di lavoro e la nascita di nuove imprese. Le attività molto positive a livello sociale delle diverse realtà associative dovrebbero interagire di più con il mondo del lavoro, essenziale per il futuro del Paese. Basterebbe seguire con attenzione le iniziative che la chiesa italiana dedica da tempo a questi problemi (il progetto Policoro è un grande segno di speranza da circa 20 anni).
Solo nel 2017 sono previsti il Convegno “Chiesa e lavoro. Quale futuro per i giovani del Sud” (Napoli, 8-9 febbraio), il seminario nazionale dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro (Firenze, 23-25 febbraio), la 48 Settimana sociale dei cattolici italiani su “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale” (Cagliari 26-29 ottobre). Sappiamo che alle singole diocesi sono state chieste testimonianze di buone pratiche, oltre le criticità da denunciare. Serve solo continuare anche nei nostri territori.
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