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“Non sono venuto a chiamare i giusti” (Mc 2, 17)

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di Luciano Sesta

 

Nell’ecclesiologia tradizionale, com’è noto, si dice che la Chiesa è uno strumento di salvezza in cui è Dio stesso ad agire. Certo, la storia, passata e presente, sembra smentire questa idea: come è possibile che una realtà santa come quella di Dio si manifesti attraverso un insieme di persone, dai vescovi ai semplici fedeli, che spesso non sono state affatto sante? Come può la Chiesa, di conseguenza, pretendere di essere uno strumento di grazia o addirittura – come ci dice san Paolo – il “corpo” stesso di Cristo? La risposta a questa domanda, che spesso preoccupa non solo i non credenti ma anche gli stessi cattolici, ce la offre Gesù nel Vangelo, quando dice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2, 17).

 

 Qui si apre una prospettiva nuova, che svela l’autentica natura della Chiesa: non una comunità di persone chiamate da Dio perché sono buone e perfette, ma la comunità dei peccatori. Di persone, dunque, che hanno bisogno di perdono e che, riconoscendolo, lo cercano e lo ottengono dalla misericordia del Signore. In questo senso la debolezza e i peccati dei cristiani non sono incompatibili con la Santità di Dio, dimostrando, al contrario, che Egli è  pienamente presente nella loro vita come Colui che perdona. Perciò è fuori luogo dire, come pure fanno in molti, “quello va messa ma è tutt’altro che un santo”: la differenza tra chi vive la  Chiesa e chi non la vive non sta nel fatto che il primo è uno che pretende di essere santo mentre l’altro invece è un peccatore, ma è la differenza tra un peccatore che confida nella grazia di Dio e un altro peccatore che, magari non provandoci nemmeno, dimostra in fondo di ritenersi a posto. Senza però escludere, come diceva già sant’Agostino, che chi è “dentro” la Chiesa sia in realtà “fuori” e che chi è “fuori” sia in realtà “dentro”. 

    

   Comprendiamo bene, a questo punto, il senso delle accuse che gli stessi cattolici spesso rivolgono alla Chiesa. Se la Chiesa è formata da tutti i battezzati uniti nello Spirito di Cristo, e non solo dalla gerarchia ecclesiastica, allora accusare quest’ultima finisce per diventare una specie di autoaccusa. Lo spiega molto bene Raniero Cantalamessa, in una pagina che vale la pena riportare integralmente:

 

   «Tu dici: “Ma come, e l’incoerenza della Chiesa? E gli scandali, perfino di alcuni papi?”. Dici questo, però, perché ragioni umanamente, da uomo carnale, e non riesci ad accettare che Dio manifesti la sua potenza e il suo amore attraverso la debolezza. Non riuscendo a ottenere l’innocenza da te stesso, la pretendi dalla Chiesa, mentre Dio ha deciso di manifestare la sua gloria e la sua onnipotenza proprio attraverso questa terribile debolezze e imperfezione degli uomini, compresi gli “uomini di Chiesa”, e con essa ha formato la sua sposa, che è meravigliosa proprio perché esalta la sua misericordia. […] La Chiesa va lenta, certo. Va lenta nell’evangelizzazione, nel rispondere ai segni dei tempi, nella difesa dei poveri e in tante altre cose. Ma sapete perché va lenta? Perché porta sulle spalle noi che siamo ancora pieni di zavorra di peccato. I figli accusano la madre di essere piena di rughe e queste rughe, come avviene anche sul piano naturale, sono proprio essi che gliele hanno procurate. Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei perché fosse “senza macchia”, e la Chiesa sarebbe senza macchia, se non avesse noi! La Chiesa avrebbe una ruga in meno, se io avessi commesso un peccato in meno. A uno dei Riformatori che lo rimproverava di rimanere nella Chiesa cattolica, nonostante la sua “corruzione”, Erasmo di Rotterdam rispose un giorno: “Sopporto questa Chiesa, in attesa che divenga migliore, dal momento che anch’essa è costretta a sopportare me, in attesa che io divenga migliore» (R. Cantalamessa, Il potere della croce, Àncora, 1999, pp. 152-153). 

 

 

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