di Augusto Cavadi
Qual è la differenza fra essere moderati, equilibrati ed essere grigi, incerti? Non è facile stabilirlo. Uno dei criteri è che il grigio oscillante non ha ancora preso – e probabilmente non prenderà mai – una posizione, mentre il moderato consapevole è uno che, avendo conosciuto gli estremi e avendoli soppesati, ha scelto di superarli inverandone gli aspetti positivi e lasciando scivolar via gli eccessi. Il primo inclina al compromesso, il secondo tende alla mediazione.
Proviamo a mettere a fuoco l’egoismo individualistico contemporaneo: molti lo praticano, lo pratichiamo, ma talora ce ne vergogniamo e talaltra ce ne vantiamo. Nel dubbio, spesso lo camuffiamo ipocritamente o, almeno, lo temperiamo con qualche gesto di altruismo generoso. Questa tiepidezza, che in un testo del I secolo d. C. intitolato “Rivelazione” viene definita “vomitevole”, ci rende poco interessanti agli occhi altrui e – quel che è più grave ancora – un po’ noiosi persino a noi stessi.
La filosofia, fra molti difetti e qualche pregio, può liberarci da questa assai poco aurea mediocrità: può rappresentarci il massimo e il minimo, il positivo puro e il negativo estremo, in modo da scuoterci dall’ovvio. In modo da metterci in grado o di spostarci decisamente su uno dei due versanti o di restare dove siamo, al centro delle opposte tensioni, ma per scelta. E dunque con dignità.
Che cosa sarebbe un’esistenza decisamente concentrata sul proprio Io, senza concessioni illusorie e pietistiche a istanze esterne o addirittura superiori (come la volontà di Dio, le leggi dello Stato, l’interesse della società, il bene comune dell’umanità, il progetto del Partito…)?
Un taciturno e riservato insegnante tedesco ha dato la sua articolata e argomentata risposta nel 1845 scrivendo L’Unico e la sua proprietà. Il libro ebbe una certa fortuna nell’immediato, ma presto finì – insieme al suo autore, deceduto non ancora cinquantenne nel 1856 – nel dimenticatoio. Alcuni decenni dopo, un giovane poeta inglese scoprì per caso il volume nella biblioteca del British Museum di Londra, ne rimase folgorato e dedicò molta parte delle sue energie intellettuali a conoscere, e a far conoscere, la figura e l’opera del pensatore tedesco dimenticato.
Così nel 1898 John Henry Mackay pubblica il suo Max Stirner. Vita e opere che avrà due successive edizioni nel 1910 e nel 1914: un testo non molto più fortunato del capolavoro del suo protagonista e che sarebbe rimasto ignoto al pubblico italiano se in questi mesi non fosse stato tradotto ed edito (Bibliosofica, Roma 2013, pp. 227, euro 13,00) per precisa volontà di Giovanni Feliciani. La farraginosità, tipicamente teutonica, dell’originale non è stata certo limata nella versione italiana per cui diversi passaggi si devono rileggere due volte, talora poi per arrivare alla conclusione che l’autore – se fosse stato meno analitico e puntiglioso – se li sarebbe potuto risparmiare a vantaggio di tutti: comunque la presenza di altre pagine più fruibili e più interessanti giustifica, nel complesso, la lettura del volume.
Da questa lettura si ricava, ad abundantiam, la risposta alla domanda che ci siamo appena posti: cosa sarebbe un’esistenza, rigorosamente e coerentemente, individualistica? “Niente di più e niente di meno della spiegazione di sovranità dell’individuo, la sua unicità e il fatto che sia incomparabile, questo è ciò che Stirner annuncia. […] Ci ha fatto pensare di nuovo ai nostri veri interessi, ai nostri particolari interessi profani, personali, propri e ci ha mostrato come proprio la loro osservanza ci ridarà la gioia di vivere che sembriamo aver perso e non gli interessi idealistici, sacri, degli altri e il fatto di sacrificarci nell’interesse di tutti. Mentre analizza lo Stato dei politici, la società dei socialisti, l’umanità degli umani [o degli umanisti ?] e ce li sottopone come barriere della nostra proprietà, dà il colpo di grazia all’autorità – ha rotto con la volontà dominante della maggioranza, della comunità e anche con i privilegi e, al posto del borghese, del lavoratore, dell’uomo fa il suo ingresso l’Io, al posto dello sterminatore spirituale il creatore in persona” (p. 157).
Mackay, scrivendo a cavallo fra il XIX e il XX secolo, è talmente entusiasta da preconizzare per Max Stirner una fortuna che in quel lasso di tempo risultava impronosticabile: “Comincia con lui una nuova epoca nella vita del genere umano: l’epoca della libertà! Non abbiamo per essa ancora trovato un nome migliore di quello di anarchia: l’ordine condizionato dall’interesse reciproco, invece della mancanza di ordine del potere esistita fino ad oggi; la sovranità esclusiva dell’individuo sulla sua personalità, invece della sua sottomissione; la responsabilità personale per le sue azioni, invece della sua subordinazione – la sua unicità! […] Questo cambiamento nelle condizioni di vita sarà tanto enorme, e relativamente altrettanto veloce, quanto sicuro e non cruento, che il suo libro immortale eguaglierà soltanto quello della Bibbia in quanto a importanza. Così come questo libro ‘sacro’ sta all’inizio del calendario cristiano e avrà i suoi effetti devastanti per due millenni quasi fino all’ultimo angolo della Terra abitata dagli uomini, questo egoista cosciente di sé e non sacro, sta all’ingresso della nuova era, all’insegna della quale viviamo, per esercitare un’influenza, altrettanto benefica, quanto è stata deleteria quella del ‘libro dei libri’ ”(p. 180).
La previsione del biografo di Stirner pone almeno due questioni a chi la legge dopo un secolo intero.
La prima è se tale previsione si sia avverata. A me la risposta non sembra facile. Se pensiamo all’anarchia come progetto politico che coniuga inseparabilmente i tre princìpi della Rivoluzione francese (libertà, uguaglianza e fraternità) mi pare che non si sia realizzata. Eppure Stirner sembra suggerire, o per lo meno non escludere abbastanza chiaramente, un’interpretazione riduttiva dell’anarchia come egocentrismo, come individualismo esasperato: in questo senso la storia del berlusconismo in Italia, ma tante altre vicende analoghe nel pianeta, sembrano attestare la vittoria netta del particolare sull’universale, del proprio sul comune. Insomma: se, e in quanto, teorico dell’anarco-capitalismo, Stirner ha davvero vinto molto più di quanto l’ignoranza diffusa sulla sua opera lasci supporre.
Una seconda questione suggerita dalla previsione di MacKay sulla fortuna delle idee stirneriane è più sottile ancora. L’alternativa, infatti, sembra configurarsi come anarchia (senza solidarietà com-passionevole, attiva, intenzionale) o cristianesimo: la battaglia dell’Unico “non era contro le forme esteriori della Weltanschauung cristiana, contro la Chiesa di oggi marcia e in rovina, bensì contro quello spirito che edifica roccaforti sempre nuove con sempre nuove forme, quello spirito del Cristianesimo che giace come un velo oscuro sul passato” (p. 179).
A me questa impostazione risulta illusoriamente comoda sia per gli anarchici alla Stirner (ai quali basterebbe il declino definitivo del cristianesimo per cantare vittoria), sia per i cristiani (ai quali basterebbe il declino definitivo dell’anarchia per cantare vittoria). La vita e l’opera di giganti come Lev Tolstoj, che hanno incarnato vangelo e anarchia in senso pieno, dovrebbe metterci in allerta su aut-aut troppo schematici.
Dal mio punto di vista l’alternativa è un’altra: o il soggettivismo antropocentrico moderno inaugurato da Cartesio (l’unico fondamento è il pensiero dell’ego mentre pensa) o qualsiasi altra prospettiva realistica, ontocentrica (che riconosca la relatività irriducibile del soggetto umano rispetto alla Natura dei Greci o al Dio dei monoteismi o allo Spirito degli hegeliani o all’Essere degli heideggeriani o al Cosmo degli ecologisti…).
Infatti la rilevanza teoretica di Stirner (non so quanto consapevole da parte sua) è di essere il punto di arrivo insuperabile del “principio di immanenza” moderno (come individuato, criticamente, da Cornelio Fabro e da altri): dopo di lui – la cui “causa è fondata sul nulla!” – si può solo praticare l’individualismo amorale, asociale e areligioso, non esasperarlo.
Ma, se fallisse perché proprio la sua attuazione in pratica ne rivelasse l’insostenibilità teoretica, ciò non significherebbe automaticamente la vittoria (o la rinascita) del cristianesimo. Potrebbe infatti capitare che, studiando con libertà le fonti bibliche, si scoprisse che il cristianesimo non è il fondamento originario e originale di tutti i valori morali ma il catalizzatore di valori morali elaborati da saggezze ad esso precedenti e via via contemporanee (egiziana, ebraica, greca, romana…); che esso dunque può accettare di diventare, pariteticamente, il tassello di un mosaico sapienziale più vasto, planetario (rinunziando a primogeniture e a monopoli storicamente e filologicamente infondati). Ebbene, in questa evenienza, l’alternativa radicale all’unicismo orgogliosamente nichilistico di Stirner potrebbe configurarsi in modalità inedite che, pur inglobando anche elementi della tradizione cristiana, siano incentrate in un saldo rispetto della Physis (intesa in maniera più o meno ampia, più o meno laica, più o meno sacrale) e impreziosite da valori coltivate da altre tradizioni sia occidentali (illuminismo, socialismo, ambientalismo…) sia orientali (induismo e buddhismo in primis).
{jcomments on}
Lascia un commento