Riflessioni sulla conciliazione tra lavoro e famiglia alla luce del rapporto Istat “Avere figli in Italia negli anni 2000”
di Guglielmo Faldetta
La recente pubblicazione del rapporto Istat Avere figli in Italia negli anni 2000 costituisce una stimolante occasione per riflettere sul tema della natalità in Italia, con particolare riferimento alla problematica relativa alla conciliazione o, meglio, armonizzazione tra lavoro e famiglia. Il report, infatti, analizza le dinamiche riproduttive delle donne in Italia, sulla base delle indagini campionarie sulle nascite e le madri condotte dall’Istat nel 2002, nel 2005 e nel 2012, approfondendo la difficoltà di conciliazione tra famiglia e lavoro considerata quale principale vincolo che limita la fecondità in Italia.
I dati relativi ai bassi indici di natalità in Italia sono ben noti ed ormai consolidati. Essi sono frutto anche di fattori di tipo ampiamente socio-culturale, come dimostra il fatto che i tassi di natalità delle donne italiane risultano generalmente più bassi di quelli delle donne straniere che vivono in Italia. A tal proposito, è evidente, e viene confermato anche dal rapporto Istat, che l’aumento dei tassi di occupazione femminili non ha prodotto una contemporanea evoluzione del ruolo all’interno della famiglia e della coppia. Il lavoro domestico risulta ancora troppo spesso in capo prevalentemente alla donna, che deve così faticosamente conciliare i diversi ruoli di lavoratrice, compagna, madre e figlia.
D’altra parte, fa riflettere il dato relativo al numero medio di figli attesi, che si attesta sui 2,29 nel 2012, in crescita rispetto alle rilevazioni precedenti. Tale dato, unito al fatto che nove madri su dieci, prescindendo dalla classe di età, progettano di avere una famiglia con almeno due figli, e che la preferenza verso famiglie con tre o più figli è più frequentemente espressa dalle madri più giovani, fa pensare che nel corso della vita le donne sperimentino delle difficoltà e degli ostacoli che evidentemente non consentono loro di realizzare i propri desideri. In pratica, nelle donne giovani è presente un desiderio, anzi, un’intenzione a generare figli, ma il confronto con la realtà, in particolare quella lavorativa, risulta frustrante.
Volendo approfondire il tema della conciliazione tra lavoro e famiglia, è sufficiente partire da un dato: dal rapporto Istat emerge che il 42,7 per cento delle donne ha segnalato che esistono aspetti del proprio lavoro che rendono loro difficile conciliare impegni lavorativi e familiari. Gli aspetti legati al lavoro che rendono tale conciliazione più difficoltosa sembrano essere in generale legati all’orario di lavoro, ed all’impossibilità di organizzare il proprio orario di lavoro con una certa autonomia. Da questo punto di vista, probabilmente, le aziende potrebbero fare di più, provando innanzitutto a rilevare nel modo più corretto le reali esigenze dei propri dipendenti, a progettare quindi degli strumenti di conciliazione realmente efficaci, ed a supportarne fattivamente l’implementazione.
Sono interessanti anche i dati relativi alla cura dei figli più piccoli; a tale proposito, dal rapporto Istat emerge che la maggior parte delle madri lavoratrici utilizza le reti di aiuto informale, prevalentemente affidando i propri figli ai nonni. E’ evidente che tali dati sono il frutto, da un lato, della carenza di posti nelle strutture pubbliche e, dall’altro lato, degli elevati costi delle strutture private.
C’è da dire, però, che la riflessione verte spesso sugli aspetti legati ad una gestione, per così dire, quotidiana della conciliazione tra vita lavorativa e familiare, e sui relativi strumenti organizzativi che possono in qualche modo favorirla, ma si tralascia a volte di considerare l’impatto che talune politiche legate all’organizzazione del lavoro possono avere sulle scelte familiari di lungo termine, come quelle di creare una famiglia e mettere al mondo dei figli. A tale proposito, fanno riflettere i dati sulla variazione della condizione professionale delle madri prima e dopo la nascita dei figli. Dal rapporto Istat, infatti, emerge chiaramente il rischio di perdere il lavoro a circa due anni dalla nascita di un figlio, dato che risulta in crescita rispetto alle precedenti indagini. Ancora, mostrano una maggiore probabilità di lasciare e, ancor più di perdere il lavoro, le madri con contratto di collaborazione e quelle a tempo determinato.
Ci si dovrebbe chiedere, quindi, quanto incida la sicurezza o, al contrario, la precarietà percepita dalle donne lavoratrici rispetto al proprio posto di lavoro sulle scelte familiari di lungo termine, e cosa le organizzazioni possono fare in tal senso.
Il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti previsto dal Jobs Act potrebbe influenzare in tal senso le scelte familiari delle lavoratrici, ma bisognerà attendere di vedere i concreti comportamenti delle organizzazioni, nonché degli altri attori che in qualche modo possono incidere su tali scelte. Su tutti, basti un esempio: un lavoratore con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti avrà più facilità ad ottenere un mutuo per l’acquisto della prima casa? La prima impressione sembra essere negativa, in quanto tale nuova tipologia contrattuale in realtà può essere interpretata dagli attori economici coinvolti come generatrice di maggiore precarietà.
Volendo offrire alcuni spunti di riflessione su come risolvere il problema della conciliazione tra lavoro e famiglia, se ne potrebbero individuare tre.
1. Non è sufficiente la presenza di misure per la conciliazione, siano esse quelle già previste dalla legge, o quelle che le aziende volontariamente mettono a disposizione dei propri dipendenti. Ciò che risulta decisivo è il cambiamento culturale che deve avvenire all’interno delle organizzazioni, a partire evidentemente dal management. Le politiche e gli strumenti per la conciliazione devono essere il frutto di una più ampia riflessione sulla soddisfazione (o insoddisfazione) dei lavoratori, sia rispetto al proprio lavoro, sia rispetto alla propria vita nel suo complesso. In generale, per essere realmente efficaci tali politiche dovrebbero innanzitutto essere il frutto di una corretta rilevazione delle reali esigenze dei propri dipendenti; inoltre, in assenza di una cultura organizzativa realmente di supporto, si rischia che l’implementazione di tali politiche risulti poco efficace.
2. Come prima accennato, sarebbe bene distinguere tra strumenti di conciliazione volti ad incidere sulla quotidiana gestione familiare e lavorativa, e politiche, in senso più ampio, capaci di influenzare positivamente le scelte di lungo periodo che i lavoratori e le lavoratrici possono compiere nel creare una famiglia e nel mettere al mondo dei figli.
3. Il cambiamento culturale che occorre in Italia per delle efficaci politiche di conciliazione dovrebbe investire non solo le organizzazioni economiche, ma la società nel suo complesso. Spesso essere una donna in carriera significa assumere dei modelli di comportamento, per così dire, maschili. Ad esempio, se il fare carriera necessita di orari di lavoro lunghi, di una facile reperibilità, frutto di una cultura del “presenzialismo” per cui viene premiato chi riesce ad essere più visibile, ciò può essere penalizzante per una donna che, essendo in gravidanza, o avendo da poco partorito, necessita inevitabilmente di un periodo più o meno lungo di congedo. Non è accettabile che le uniche alternative possibili per una donna siano mettere al mondo dei figli rinunciando alla carriera (o rallentandola significativamente), oppure fare carriera rinunciando al mettere al mondo dei figli, o diventando madri il più tardi possibile, rinunciando così comunque a quei desideri, che il rapporto Istat ben fotografa, legati al numero dei figli che si vorrebbero generare.
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