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Re oltre il potere

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Introduzione alla lectio divina su Gv 18,33-37

25 novembre 2012-XXXIV domenica del tempo ordinario

Pilato entrò dunque di nuovo nel pretorio e chiamò Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Da te stesso tu dici questo, oppure altri te l’hanno detto riguardo a me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti hanno consegnato te a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è da questo mondo; se il mio regno fosse da questo mondo, le mie guardie avrebbero lottato per me, affinché non fossi consegnato ai giudei. Ma ora il mio regno non è di qui». Gli disse dunque Pilato: «Quindi sei re tu? ». Rispose Gesù: «Tu dici che sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto nel mondo, per testimoniare la verità: chiunque è dalla verità ascolta la mia voce».

 

 

Antonio Ciseri, Ecce homo, 1871

Questo spezzone di dialogo tra Pilato e Gesù si colloca all’interno di quello che nelle Bibbie viene chiamato solitamente Libro della Gloria, ossia la parte del vangelo di Giovanni che va dal cap. 13 in poi. Ma altri teologi definiscono meglio questa parte come Libro dell’Ora, ossia il tempo della passione e della resurrezione, un’Ora che l’evangelista declina prima in dialogo, di Gesù con i discepoli e con il Padre, e poi in vivida narrazione (capp. 18-20), scegliendo “alcuni quadri che più gli interessano per esprimere e far rivivere al lettore questo tempo forte” (Ugo Vanni).

Non sarà allora un caso che due parolette ‘vuote’, due locuzioni avverbiali di spazio e tempo, come “ora” e “di qui”, assumano nel nostro brano un valore teologico fortissimo, nel connubio indissolubile con altre due parole ‘piene’, quali Regno e Verità.

L’Ora che Gesù sta vivendo, l’ora del processo civile che lo porterà alla passione, morte e resurrezione illumina la qualità del regno e la natura della regalità incarnata da Gesù, che si configura come opposta alla regalità di cui Pilato è anch’egli, a suo modo, incarnazione, in quanto rappresentante del potere imperiale romano in Palestina.

Lo spartiacque tra la regalità di questo mondo e quella di Gesù sta nell’uso della violenza: il controllo e l’esercizio della forza sono infatti ancora oggi una delle cifre distintive di uno Stato. Se il mio regno fosse da questo mondo le mie guardie avrebbero combattuto per me, dice Gesù. E invece, le guardie le troviamo a fianco di Giuda nell’agguato teso al maestro in preghiera nell’orto del Getsemani (Gv 18,3) e saranno ancora le guardie a inveire a fianco dei sommi sacerdoti con quel martellante “Crocifiggilo” (19,6). Al contrario, quando Pietro giocherà il ruolo della guardia di Gesù tagliando l’orecchio al sommo sacerdote, lo stesso Maestro, com’è noto, risanerà quella mutilazione.

Re dunque, Gesù lo è, ma di un regno ben diverso dall’orizzonte di questo mondo. Regno di ascolto e di mitezza, di verità sussurrata e non sbraitata, vissuta e testimoniata, ma mai imposta. E dal trono paradossale della croce, supplizio degno solamente dello schiavo, Gesù diventa re di chiunque ascolta la sua voce. Sarà l’Apocalisse a chiarire ancora meglio i contorni di questo regno istituito da Gesù con la crocifissione: “E fece noi regno, sacerdoti a Dio e Padre suo” (Ap. 1,6: la seconda lettura liturgica).

Se il Regno non viene da questo mondo, è però in questo mondo che nell’ascolto fedele e obbediente i cristiani sono resi tutti sacerdoti, capaci di mediare al mondo il progetto di Dio nella storia. Mediazione che passa non da parole proclamate su una cattedra, ma da quella “testimonianza alla verità” di chi, ascoltando, finisce con l’assumere i tratti e i pensieri stessi di Cristo. “Perché, se uno è ascoltatore della Parola, ma non esecutore, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena s’è osservato, se ne va e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come un esecutore fattivo, questi sarà felice nel suo fare” (Gc 1,23-25).

 

Valentina Chinnici

 

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