di Stefania Macaluso
La “crisi”, considerata dal punto di vista economico-finanziario, risulta un’astrazione disincarnata che tradisce l’etimologia del termine economia, che piuttosto rimanda all’amministrazione della “casa”, il luogo di custodia della vita, per definizione. Per una mutazione perversa il mezzo è diventato fine: da amministrazione delle risorse per il bene comune , l’economia si è costituita come sistema globalizzato di finanza speculativa, gestita da entità detentrici di un potere riservato a pochi.
In questi termini, la crisi ha un’evidente correlazione con il modello consumistico di una civiltà predatrice delle risorse del pianeta, sull’orlo di un “ecocidio”, come ci avverte già da qualche decennio, la studiosa di geografia economica, Giuliana Martirani, la quale, a tal proposito parla della necessità di invertire la rotta, verso la «civiltà della tenerezza», compiendo un percorso che opponga alla violenza sfruttatrice degli altri e della Terra, la «tenerezza di formazioni economiche e politiche, funzionali al bene comune».
Se vogliamo immaginare uno scenario futuro di speranza, non possiamo che aprirci a una visione di complessità nella quale la crisi si legga non nelle cifre finanziarie, ma nel carico di sofferenza che segna la vita reale degli esseri umani. Educare oltre la crisi significa dunque riproporre alle nuove generazioni il cammino della bellezza smarrita nell’orizzonte di un sistema ecosostenibile.
È questa la civiltà della tenerezza che ci viene annunciata da papa Francesco quando parla della necessità di sostituire alla «globalizzazione dell’indifferenza», alla «cultura dello scarto», la «civiltà della commozione e della gratitudine, della custodia dell’altro e della Terra».
Al tempo della crisi, la sfida educativa risponde alla costituzione di un nuovo paradigma culturale: il paradigma di Francesco d’Assisi.
Se la crisi ha determinato l’ imbruttimento della vita del singolo e l’abbrutimento della vita sociale, bisogna, come ha affermato il papa in occasione di un suo incontro con gli studenti, «insegnare a vivere bene, dare un senso profondo all’esistenza, dare speranza».
Il programma è chiaro: far scoprire attraverso l’apprendimento delle varie discipline scolastiche, il senso della custodia; guidare alla consapevolezza del destino comune attraverso la solidarietà, in opposizione all’individualismo; liberare desideri immateriali, attivare energie spirituali, stimolare esperienze contemplative. Questo significa educare alla bellezza. Riguardo ai processi, papa Francesco dà indicazioni concrete: riattraversare le vie della politica e dell’etica tenendo lo «sguardo alto», orientato cioè dalla coscienza spirituale; cammino che, ci avvisa questo Maestro del nostro tempo, è la forma più compiuta della politica.
All’interno della scuola, la crisi si esprime nei termini del disagio.
La parola con la quale meglio comprendere lo stato di disagio penso sia afflizione: l’etimologia latina, ad- fligere, indica la direzione verso qualcuno e il battere, il percuotere, l’opprimere, il vessare: significati che rimandano ai sintomi di una società sofferente a causa dell’ ingiustizia generata dalla concezione del potere come sistema parassita e clientelare, cinico di fronte alla sofferenza umana che ne consegue.
Per capire il disagio dei giovani bisogna partire dal disagio, dall’ afflizione degli adulti, la cui matrice è relazionale, nasce cioè dal bisogno inappagato del riconoscimento.
«Ogni individuo si aspetta che gli si faccia del bene, e non del male. È questo ciò che costituisce la sacralità dell’essere umano». Così scriveva la filosofa Simone Weil, indicando in una nuova fondazione della relazione umana, la possibilità di ricostruire l’Europa dalle macerie post belliche.
La scuola che guarda al futuro di speranza oltre la crisi, deve educare al superamento della prospettiva individualista e materialista per assumere quella relazionale e spirituale: sviluppare la sensibilità empatica, la percezione emozionale di sé e degli altri, la visione reticolare e non gerarchica delle relazioni, educare alla cooperazione piuttosto che alla competizione.
Non solo le discipline umanistiche, che per statuto educano lo spirito attraverso la poesia, l’arte, la filosofia, ma anche quelle scientifiche contribuiscono alla formazione spirituale di individui in grado di vivere relazioni improntate alla cura di sé, degli altri e del mondo che ci ospita.
Educare equivale dunque ad assumere un ruolo politico, intendendo per politica l’agire virtuoso improntato alla relazione organica, vitale, tra sé e gli altri, in grado di discriminare l’esercizio di tale virtù, da quello del potere. Lo studio scolastico è l’occasione privilegiata perché i giovani scoprano la responsabilità del collocarsi nel mondo. La condizione è proporre un apprendimento non imperativo ma attrattivo, all’interno di una scuola fondata su relazioni di cura. Per dirla con un termine caro a papa Francesco, si tratta di indicare la virtù della magnanimità, di educare cioè a diventare «Persone che sanno affrontare la vita con coraggio e pazienza», per ritrovare il cammino della bellezza.
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