di Giuseppe Savagnone
Ancora una volta papa Francesco ha denunziato, in questi giorni, il pericolo che nella Chiesa ci siano persone che sono mosse prevalentemente da vanità, sete di potere, desiderio di guadagno. «Arrampicatori», li ha definiti, che purtroppo ricoprono cariche direttive all’interno dell’istituzione ecclesiastica e ne inquinano lo stile evangelico.
Non sono tra coloro che vedono in queste prese di posizione del pontefice un pericoloso assist (mi si perdoni il gergo calcistico) ai denigratori della Chiesa. Constato, al contrario, che la credibilità della comunità cristiana è cresciuta in modo esponenziale da quando prima Benedetto XVI – nella via crucis tenuta poco prima della sua elezione a papa e poi nelle sue decise denunzie nei confronti dei preti pedofili – e adesso, soprattutto, Francesco, con ripetute critiche, hanno avuto il coraggio di dire chiaramente quello che tutti pensavano, e cioè che anche nell’istituzione ecclesiastica ci sono molti peccati per cui chiedere perdono e molte cose da cambiare radicalmente.
Sono convinto, inoltre, che sia giusta la via scelta dall’attuale pontefice, che mira a cambiare la cultura della Chiesa, prima di passare a vere e proprie riforme strutturali. Sia perché queste richiedono più tempo, sia perché in realtà se non c’è una mentalità nuova, che le faccia entrare effettivamente in funzione, esse rischiano di essere solo il paravento della logica gattopardesca del “cambiare tutto affinché nulla cambi”.
Detto tutto ciò, mi sembra che ci sia una sfera intermedia tra cultura e strutture, quella delle “buone pratiche”, dove sarebbe bene cominciare a muovere qualche passo per non restare solo sul piano delle denunzie e delle esortazioni. Rientrano in questa sfera le modalità di scelta dei nuovi vescovi, una questione particolarmente importante per il futuro della Chiesa. è di questo che vorrei parlare, da membro della Chiesa, provando a proporre sommessamente qualche idea assolutamente criticabile e rivedibile, ma utile se non altro per aprire un confronto.
Attualmente il meccanismo è quasi totalmente verticistico. Tutto è nelle mani del Nunzio del paese in cui si trova la diocesi rimasta senza ordinario e della Congregazione romana dei vescovi. L’ultima parola spetta, naturalmente, al papa, che però, per decidere, ha tra le mani solo le carte che gli vengono passate da questi organi. Un briciolo – ma starei per dire “una parvenza” – di ascolto della “base”, dei fedeli a cui quel pastore dovrà essere inviato, è rappresentato dalle lettere che, con grande segretezza, vengono inviate ad alcune persone, laici e sacerdoti, perché esprimano il loro parere sul candidato. In realtà capita spesso che queste lettere siano spedite a suoi amici, se lo si vuole promuovere, o a suoi nemici, in caso contrario. In ogni caso, l’esperienza dice che il meccanismo funziona pochissimo per sapere la verità non solo sul futuro possibile vescovo, ma sui desiderata del popolo di Dio che egli dovrà in seguito guidare.
Insomma, tutto funziona come in una multinazionale, in cui sono i dirigenti centrali a decidere chi mandare a gestire una filiale. E questo è sicuramente contrario alla logica di una Chiesa che è fatta di tante Chiese, unite fra loro ma dotate ciascuna di una propria identità e autonomia, pur nella reciproca armonia, come insegna l’ecclesiologia del Vaticano II. Ora, a questa ecclesiologia papa Francesco ha mostrato di essere molto sensibile, fin da quando, senza voler sminuire in nulla il primato del sommo pontefice, si è esplicitamente presentato come «vescovo di Roma». Sarebbe forse opportuno che, a questa presa di posizione culturale, cominciasse a seguire qualche passo concreto che si traduca non tanto in astratte regole, quanto in un nuovo stile.
Dico subito che non penso affatto a una elezione dal basso. So bene che era questo il sistema nei primi secoli, ma so anche che è stato abbandonato per i gravissimi inconvenienti che comportava. E questo sarebbe ancora più vero oggi che allora. Basta guardare il funzionamento della democrazia nel nostro paese per rendersi conto che, in un eventuale sistema elettivo “dal basso”, a contendersi il pontificato sarebbero stati, a Roma, Berlusconi e Grillo, e a diventare vescovi nelle singole diocesi i loro emuli. In una società massificata e dove dominano i mezzi di comunicazione sociale, i manipolatori dell’opinione pubblica hanno facile gioco.
Ma la sola alternativa alla demagogia non è il verticismo. Si possono concepire soluzioni che, lasciando a Roma l’ultima decisione, prevedano però delle consultazioni. Non indiscriminate. La forza, ma anche la tragedia, della democrazia è che il voto della persona informata, che legge i giornali e segue criteri di buon senso nella sue scelte, vale esattamente quanto quello del qualunquista che non sa né vuole sapere nulla, e che è disposto a dare il suo appoggio solo a chi gli promette vantaggi immediati. Le consultazioni da svolgere in una diocesi, per arrivare a stabilire un identikit del nuovo possibile vescovo, ed eventualmente realizzare una convergenza su alcuni nominativi corrispondenti ad esso, dovrebbero invece coinvolgere solo una cerchia relativamente selezionata di presbiteri, diaconi, religiosi e laici. In ogni diocesi si sa bene chi sono le persone più qualificate. E poiché qui non si tratta di stabilire alcuna legge formale – questo renderebbe necessario trovare criteri giuridici oggettivi molto problematici – , ma solo di stabilire una prassi di fatto, è concepibile che uno o più incaricati di Rima vengano a consultare queste persone, possibilmente dando luogo a momenti di franco scambio di opinioni in piccoli gruppi.
Non è un sistema infallibile, né manca di inconvenienti. Se ne possono pensare altri. L’essenziale sarebbe di uscire dall’attuale sistema, in base al quale i pastori vengono “paracadutati” su una comunità diocesana, domandando a loro prima se sono d’accordo, ma senza mai provarsi a chiedere a quest’ultima se lo è anche lei.
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