Intervista a Leoluca Orlando, sindaco di Palermo
di Fernanda Di Monte
Sindaco di Palermo per la quinta volta, Leoluca Orlando ha la consapevolezza che essere stato eletto con più del 70 per cento dei voti sia più che un onore, soprattutto un impegno non indifferente. Si presenta come visceralmente innamorato della “sua” città e non dubitiamo che effettivamente lo sia. E neanche dubitiamo che la città, a differenza dei suoi predecessori, lo ricambi con sentimenti altrettanto forti: Orlando o si odia o si ama.
Il sindaco appare ancora oggi combattivo, a tutti i livelli, anche nel portare avanti il cavallo di battaglia che lo ha reso famoso in passato a livello mondiale: la cultura cittadina.
Lei torna a fare il sindaco in una città segnata da molti problemi. Quali sono i suoi sentimenti?
“L’essere stato eletto con un grande consenso mi carica di una grande responsabilità. Sento che i palermitani hanno posto la loro fiducia in me. Si aspettano la risoluzione dei problemi. Ho lanciato un appello per essere aiutato. E hanno risposto, in maniera straordinaria, circa 4.000 persone disposte a dare il loro contributo gratuitamente. Io credo che il consenso così alto che ho avuto derivi dal fatto che sono apparso, al di là dei miei meriti, come un elemento di speranza in una città che però era disperata.
Io considero Palermo la mia forza e la mia debolezza; il mio amore per Palermo è la mia forza, ma anche la mia debolezza, nel senso che si è creato un rapporto tra me e la città, che è un rapporto molto forte, di innamoramento, di passione e questo credo che venga percepito, soprattutto nei momenti più bui, di maggiore difficoltà, nel senso che appaio come un sindaco di emergenza…”.
Come in quest’ultimo mandato…
Sì. Fu così anche nel 1993, quando ci fu la stagione delle stragi, sia pur con un’emergenza diversa. Questo tipo di rapporto con la città è importante. Io sostengo che l’amore è importante. Si può fare il ministro senza amore, si può fare il parlamentare senza amore, ma il sindaco no.
È, però, necessario coniugare in qualche modo emergenza e progetto. Faccio alcuni esempi. Tutti i sabati mattina, facciamo una riunione di giunta che ha come oggetto l’internazionalizzazione di Palermo, come aprire Palermo al mondo. Faccio mia una frase di uno scrittore: “Se sei in una stanza con quattro porte e devi fuggire, non mi chiedere da dove scappare, dimmi prima dove vuoi andare”. Perché io rischio di uscire dall’emergenza e paradossalmente sto peggio di prima, perché sono più lontano dal progetto che ho.
Un sindaco deve essere un ponte; un ponte tra la Palermo del libro e la Palermo del vicolo, tra chi lo ha votato e chi non lo ha votato, tra chi ha e chi non ha, un ponte tra le diverse Palermo. Io vivo la sofferenza della Palermo oltre la circonvallazione e oltre l’Oreto, della quale non si occupa nessuno. Noi abbiamo una città oltre l’Oreto che sembra sia terra di nessuno: non ci sono strutture sanitarie, impianti sportivi, ristoranti, alberghi…
Alcuni mi prendono in giro perché io ogni volta assumo un atteggiamento diverso a seconda se le cose da fare sono al di qua o al di là dell’Oreto. Stiamo sempre a parlare del centro storico, di Mondello, di Sferracavallo, ma c’è un’umanità al di là dell’Oreto della quale non si occupa nessuno. Io credo allora che l’essere ponte tra le diverse città è il compito di un vero sindaco, l’essere ponte tra i meriti e i bisogni”.
In questo senso, lei oggi a Palermo trova una situazione molto diversa da quella che aveva lasciato?
Certamente. Trovo una Palermo in cui non c’è la sfida forte e militare della mafia, però c’è la palude. Sconfiggere la palude è meno pericoloso, ma è difficile.
Ecco perché diventa fondamentale, ed anche più difficile, costruire comunità. Mentre prima la reazione nei confronti delle violenze portò sostanzialmente a farsi sentire parte di un comunità (ricordiamo le manifestazioni, la catena umana, i lenzuoli bianchi), oggi ci sono mondi virtuosi che si riuniscono, poi gli stessi esponenti di questo mondo virtuoso, appena escono, si dimenticano delle loro virtù: ciò è dovuto anche al fatto che non trovano la città. Persone che prima hanno un atteggiamento e poi fuori ne hanno un altro.
Manca la sinergia?
Manca piuttosto ciò che io chiamo “fiducia”. E la fiducia si costruisce sul comune linguaggio.
Io ho più fiducia in una persona che parla come me, ma non la pensa come me, anziché in una persona che la pensa come me, ma non parla come me. Il linguaggio è fondamentale. Il modo in cui ti rapporti con l’altro è fondamentale per avere fiducia. Dobbiamo tutti costruire questo sistema di fiducia, sapendo che c’è questo bene supremo che è ogni persona umana. Anche perché se al centro c’è la persona, poi tutto il resto viene di conseguenza.
Il tema è coniugare, in una comunità, la persona e la libertà. Devo dire che il cardinale Romeo, in occasione del funerale di Carmela Petrucci, la ragazza uccisa all’Uditore, ha fatto una bellissima omelia sulla libertà: ecco, lì in quel momento c’era una comunità.
Quali sono le carenze culturali nella città di Palermo: come intende rilanciare la cultura nella città?
“Rispondo innanzitutto dicendo che cosa è, per me, la cultura. La cultura è innanzitutto conoscere se stessi. Credo allora che sia fondamentale promuovere la conoscenza di noi: il noi individuale, il noi comunitario, il noi fisico di città, il noi urbanistico, il noi economico, agricolo, piuttosto che industriale. Quindi insisto sul senso della comunità e la comunità ha bisogno di comportamenti, ma anche di simboli.
Bisogna in qualche modo promuovere dei simboli. Ad esempio, ho dato la cittadinanza onoraria a Don Giovanni Andrea, salesiano, che ha lasciato il suo impegno a Santa Chiara. La cittadinanza onoraria come un modo per dare voce ad un sentimento diffuso, un modo per essere altoparlante di parole e voci che non sono soltanto le mie.
Nel 1997, quando dopo 24 anni di chiusura, abbiamo riaperto il teatro Massimo, è stato anche come riaprire un luogo di comunità, c’è stato il riconoscimento di una identità, l’idea che il passato non è soltanto vergogna, ma che c’è anche un futuro.
La città deve recuperare il rapporto tra identità e tempo, tra le radici e le ali, perché se sei soltanto radici muori soffocato”.
Per questo l’iniziativa di “Palermo, capitale europea della cultura” nel 2019?
“Ma per potere essere candidati ad essere capitale europea della cultura, dobbiamo prima essere una città di cultura. Stiamo allora facendo una serie di cose che sono legate a questo percorso. Alla fine, saremo o non saremo capitale della cultura, sposta poco.
E la Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo può inserirsi in questo percorso.
C’è anche un altro progetto, più vicino in termini di tempo: abbiamo candidato Palermo, Monreale e Cefalù come patrimonio dell’Unesco, come patrimonio dell’umanità, come città arabo-normanne. L’identità del palermitano è anche identità cristiana, ma questa identità non può essere assente nel percorso di “Palermo, capitale europea della cultura”.
Quanto ha detto riguarda anche l’aspetto culturale nella Chiesa?
“Certo, quando un pastore aiuta la costruzione di una comunità, si espone a rischi. Però, se ci pensiamo, la condanna della mafia da parte del cardinale Pappalardo ha avuto un effetto straordinario, non per la lotta alla mafia, ma per costruire la comunità palermitana, per far capire alle persone che c’è un modo per stare insieme, che però qualcuno disturba. In fondo, la mafia non uccide solo una persona, ma uccide una comunità, distrugge il senso comunitario e la sostituisce con il surrogato dell’appartenenza al clan. C’è anche il problema del rapporto tra Chiesa e Vaticano. Nelle realtà locali, la Chiesa deve essere più Chiesa che Vaticano. Come alla politica si chiede di essere normale, così pure per la Chiesa. L’esigenza di dimensione umana della politica, per la Chiesa diventa esigenza di comunità.
Il sito della pastorale della Cultura“Tuttavia”, nasce proprio con l’intento di creare relazione, scambio…
“In questi ultimi dieci anni si è persa la dimensione comunitaria della vita, come in tutto il mondo, ma a Palermo abbiamo un rischio aggiuntivo, perché in altre realtà, anche se si perde la dimensione comunitaria della vita, non si ha la tentazione di comunità deviate. Noi abbiamo una comunità deviata che è quella dell’appartenenza, che poi diventa la mafia. Che cos’è la mafia se non “a chi appartieni?”. Io credo allora che Palermo esiste, credo che i palermitani esistano, ma non esiste ancora la comunità palermitana”.
Da dove cominciare?
“Si deve ricostruire la comunità, partendo dal nucleo più piccolo, cioè la famiglia e poi la scuola. Io sostengo che oggi a Palermo non esiste la scuola, esistono semmai le scuole ed ogni scuola vive come se fosse un fortino assediato, senza collegamento con le altre scuole. Quando molti anni fa avviammo il programma “La scuola adotta un monumento” servì anche a rafforzare la dimensione di rete della scuola. Noi siamo impegnati come amministrazione a ricostruire questa rete tra le scuole. Facciamo incontri periodici con i dirigenti scolastici per far capire che loro non sono disperati come in un fortino nel deserto, ma fanno parte di un sistema, il sistema scolastico. Ecco, per rispondere alla domanda sulla Chiesa, faccio anch’io una domanda: “Quanta comunità c’è di Chiesa a Palermo? E quanta invece di appartenenza?
Questo è il problema. Noi oggi rischiamo di vivere in un paese dove esistono politici senza partito, sindacalisti senza sindacato, professori di scuola senza scuola, accademici senza accademia, parroci senza comunità parrocchiale. Io credo allora che quello che tutti ci aspettiamo che la Chiesa faccia è che ricostruisca momenti di comunità, la dimensione comunitaria della vita”.
Lei è credente. Come sente Gesù, come prega?
“Io credo in Dio e credo che Dio sia uno. Mi è capitato di essere cristiano, poteva capitarmi di essere buddhista, musulmano o ebreo. Che non sembri una provocazione, ma quando entro in una moschea, io prego Allah; quando entro in una sinagoga, io prego Jahvè; quando incontro il Dalai Lama, dico dell’importanza del buddhismo. Però sono cristiano. Io mi sono costruito questo approccio rispetto alla mia dimensione di fede. Da questo punto di vista, io provo molta sofferenza quando chiedo a qualcuno che differenza c’è tra la Chiesa e il Vaticano e mi viene risposto “nessuna”. Perché per me la Chiesa è il Corpo Mistico, il Popolo di Dio, mentre il Vaticano è uno Stato. Purtroppo in Italia rischiamo di avere troppo questa identificazione tra Chiesa e Vaticano. Io infatti dico: “Ridateci Lefebvre!”. Nel senso che, se c’è Lefebvre, c’è anche Tonino Bello, c’è il cardinale Martini, c’è la teologia della liberazione.
Rischiamo sennò i recinti, i fondamentalismi e torniamo alla cultura dell’appartenenza.
La fede religiosa non può essere un’appartenenza, è invece un’identità”.
Chi è quindi Gesù per lei?
“ Posso usare un’espressione un po’ banale? La persona più importante della mai vita”.
Dove trova la forza per andare avanti?
“La forza la trovo nel pensare che domani le cose saranno un po’ migliori di come lo sono oggi; nel dare un contributo ad un cambiamento possibile”.
{jcomments on}
Lascia un commento