La pandemia provocata dalla diffusione del COVID-19 ha colto di sorpresa un’umanità carica di problemi, speranze e prospettive ma incapace di prevedere l’emergenza in atto. Non sappiamo quando passerà la crisi umana, sanitaria ed economica generata dal Coronavirus ma possiamo riflettere su quanto accade al fine di trovare contenuti e visioni per il presente e il futuro.
Dell’attuale situazione nazionale e globale, discutiamo con Andrea Riccardi. Storico del cristianesimo e dell’età contemporanea, Riccardi ha insegnato presso le Università di Bari, Roma e Parigi. Editorialista del Corriere della Sera e di Avvenire, è fondatore della Comunità di Sant’Egidio oggi presente in più di 70 nazioni. Nel 2009 gli è stato assegnato il premio Carlo Magno per il suo impegno a favore della pace nel mondo.
Le restrizioni per evitare la diffusione del Coronavirus prevedono l’impossibilità di celebrare riti religiosi. Oggi, come possiamo interpretare oggi le parole dei martiri di Abitene del IV secolo per i quali i cristiani “senza la domenica non possono vivere”?
Domenica vuol dire eucarestia e noi ci troviamo in una condizione di non potere partecipare all’eucarestia per evitare assembramenti. Siamo in una situazione di impossibilità. Questo non vuol dire una facile rinuncia. Significa, invece, una dolorosa rinuncia che ci fa comprendere come stiamo attraversando un tempo unico nella storia. Mai nel nostro Paese, anche nell’Italia preunitaria, è avvenuto un tempo in cui il popolo non celebrava l’eucarestia con i sacerdoti. Nemmeno in tempo di guerra e, credo, di pestilenze.
È una condizione unica che non solo spiega la gravità del momento ma ci spinge ad un’altra e diversa dimensione spirituale. Ho pensato che non bisognava chiudere le chiese perché ritengo che la chiesa aperta – anche per la preghiera personale e per la confessione – sia uno spazio, con le dovute precauzioni, di speranza. La chiesa aperta come segno di qualcosa che non si chiude in una città dove tutto si deve chiudere. Inoltre viviamo un processo paradossale: il Coronavirus rivela che siamo tutti nella stessa barca ma per salvarci dal naufragio ci dobbiamo allontanare. Allora la sfida spirituale è che l’isolamento non sia scelta per l’egocentrismo o distanziamento dagli altri. Questa è una lotta perché c’è l’accidia che è la caduta di tensione.
Questo può essere un tempo nel quale rivalutare la connessione fra la liturgia della vita e quella del rito?
Tutte le esperienze spirituali sono possibili ma è chiaro che questo tempo ci spinge ad una dimensione più meditativa, più di preghiera, più di lettura della Parola di Dio. Ma non è facile passare dalla distrazione della vita di ogni giorno, a cui siamo abituati, ad una dimensione più meditativa. Allora torno alla domanda che i discepoli fanno al Signore: «insegnaci a pregare».
Nella crisi sociale, economica e politica successiva alla seconda guerra mondiale, per il sindaco di Firenze Giorgio La Pira occorreva, anzitutto, “salvare la democrazia”. A suo parere, l’emergenza che attraversiamo prevede un impegno simile?
Non sappiamo quando finirà quest’emergenza. Penso che durerà a lungo e ci cambierà molto interiormente, nelle abitudini. Questa situazione ci comunica il senso del nostro limite, cosa che per me è molto importante, ma anche ci ricorda che noi abbiamo divorato la natura. Adesso, in un certo senso, la natura si vendica a partire dal nostro senso di volere tutto. Tutto ciò ci cambierà. Ci cambierà anche la grande crisi economica che sta dietro alla diffusione del virus. Penso che in questo tempo di silenzio possiamo meditare che la politica gridata di questi ultimi anni non è una politica che ha portato a molto.
Una volta cessata la crisi, da cosa occorrerà ripartire?
Quando usciremo da questa crisi, saremo come convalescenti. I convalescenti dovranno guardarsi attorno e forse capiranno di più il valore del legame con gli altri, dell’amicizia, del lavorare insieme. Credo che noi dobbiamo ricostruire il tessuto sociale a livello di base, di città, di quartiere, di periferie perché come dice il libro della Genesi: «non è buono che l’uomo sia solo». Questa, secondo me, è la debolezza della nostra democrazia: un mondo di soli, di individui.
La comunità di Sant’Egidio, nel rispetto delle regole, continua ad offrire assistenza ai bisognosi. Oltre alla povertà bisogna evitare il rischio della solitudine per molti anziani. È così?
Ognuno è chiuso a casa sua ma i poveri, quelli che vivono per strada, non hanno casa alla quale rientrare. Spesso le mense si chiudono, i volontari si ritirano per timore e serve il doppio dell’impegno per questa gente che è sola e che non viene aiutata a vivere, che ha fame e si trova in condizioni difficili. Credo che ci sia bisogno di solidarietà. Le regole vanno rispettate ma le nostre case non devono diventare delle fortezze. Ci vuole solidarietà con gli altri e ci vuole un pensiero al mondo e non sentirci noi le prime vittime.
Il mistico italiano Divo Barsotti ha più volte affermato che la preghiera è l’opera più efficace di un credente. Perché è così importante la preghiera?
La preghiera protegge il mondo, lo illumina segretamente. Noi crediamo, come diceva Karl Barth, che la preghiera non lascia il mondo tale e quale non perché la nostra preghiera sia bella, efficace, potente ma perché Dio ci ascolta.
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