Il papa contro la corsa agli armamenti
La dura posizione di papa Francesco contro gli Stati, compresa l’Italia, che, in risposta al conflitto russo ucraino, hanno annunciato di voler spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi, non viene riportata in prima pagina dalla maggior parte dei grandi quotidiani italiani, probabilmente perché l’hanno ritenuta imbarazzante.
«Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!», ha detto il pontefice ricevendo in udienza le partecipanti a un convegno del Centro Femminile Italiano. «La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione. Parlo di un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti».
Un modo, ha precisato, che non sia «il frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica» – che è il «potere economico-tecnocratico-militare» – , in base a cui «si continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri». Parole decisamente controcorrente, rispetto alla linea della maggior parte degli Stati, incluso il nostro.
Solo pochi giorni fa la Camera ha approvato a larga maggioranza l’odg proposto dalla Lega che impegna il governo a portare dall’1,5% al 2% del Pil (cioè da 25 a 38 miliardi di euro l’anno) le spese militari entro il 2024. Parole che non corrispondono certamente ai canoni del “politically correct”, ma, forse proprio per questo, ci costringono a porci delle domande, in un momento in cui sembra che la corsa a «mostrare i denti», come dice il papa, non dia più il tempo per farsene.
Il punto di vista di Francesco si comprende meglio alla luce di quanto ha detto, pochi giorni fa, parlando a una associazione di volontariato che opera per combattere la sete nel mondo, soprattutto in Africa: «Perché non unire le nostre forze e le nostre risorse per combattere insieme le vere battaglie di civiltà: la lotta contro la fame e contro la sete, la lotta contro le malattie e le epidemie, la lotta contro la povertà e le schiavitù di oggi. Perché? Certe scelte non sono neutrali: destinare gran parte della spesa alle armi, vuol dire toglierla ad altro, che significa continuare a toglierla ancora una volta a chi manca del necessario (…). Quanto si spende per le armi: terribile! (…). Spendere in armi, sporca l’anima, sporca il cuore, sporca l’umanità».
Quale pacifismo?
Non si tratta, qui, di collocare tutti sullo stesso piano, mantenendo un’assurda equidistanza tra chi scatena la guerra e chi la subisce, perché è aggredito, come vorrebbe un certo pacifismo oggi abbastanza diffuso. E neppure si tratta di mettere in discussione il diritto dell’Ucraina a difendersi da un’invasione che ne minaccia la libertà e che sta provocando al suo popolo immani sofferenze umane e spaventose distruzioni materiali.
Non risulta che il papa, nella telefonata di solidarietà fatta a Zelens’kyi pochi giorni fa, gli abbia chiesto di arrendersi ai russi. Peraltro, le parole del pontefice non riguardavano neppure l’opportunità o meno dell’invio di armi al governo ucraino, per consentirgli di resistere – come sta facendo – a un esercito nemico numericamente superiore. Anche l’esplicito rifiuto, da parte di Francesco, dell’idea di “guerra giusta” – «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità. Non esistono le guerre giuste, non esistono» – va calibrato con la sua richiesta alla comunità internazionale di intervenire per fermare la strage di civili in Iraq e in Siria, nel 2014: «Dove c’è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto – sottolineo il verbo, dico “fermare”, non bombardare o fare la guerra».
E ha ribadito: «fermare l’aggressione ingiusto è lecito. Ma dobbiamo avere memoria, pure: quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una bella guerra di conquista?». Dove sembra manifestarsi l’esigenza di un intervento, che non sia però una nuova guerra di conquista mascherata.
In questo senso va anche la dichiarazione del segretario di Stato, il card. Parolin, che (presumibilmente senza voler contraddire la linea del papa), in una recentissima intervista al settimanale cattolico spagnolo «Vida Nueva», alla domanda sulla legittimità dell’invio di armi all’Ucraina, ha risposto: «L’uso delle armi non è mai qualcosa di desiderabile. Tuttavia il diritto a difendere la propria vita, il proprio popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi».
Il gioco dei potenti che porta alla guerra
Siamo comunque sul terreno delle ipotesi. In attesa di ulteriori elementi su questo punto, bisogna confrontarsi comunque con la critica radicale ed esplicita di papa Francesco alla guerra come metodo di soluzione dei conflitti internazionali e alla corsa agli armamenti in atto come inevitabile risvolto di questa impostazione.
È evidente che il destinatario ultimo di questa contestazione è il governo russo, che ha scatenato il conflitto. Essa però si rivolge, immediatamente, alla risposta data dal mondo occidentale a questa provocazione, una risposta che non si è ispirata al deciso rifiuto della guerra, ma al contrario, si sta affidando al potenziamento degli arsenali. Ed è difficile negare che ci siano degli elementi che danno ragione a Francesco. Perché, pur senza sminuire di una virgola la preponderante responsabilità di Putin, neppure gli altri Paesi sono del tutto innocenti. Non lo sono, innanzi tutto, quelli della Nato – primo fra tutti gli Stati Uniti – che hanno ostinatamente rifiutato di dare al capo del Cremlino la garanzia che l’Ucraina non sarebbe entrata a far parte dell’Alleanza Atlantica.
Qualcuno obietterà che questo avrebbe voluto dire prevaricare il diritto di un Paese libero di fare le sue scelte diplomatiche e militari. Ma quando, nel 1962 – in seguito alla fallita invasione della Baia dei porci, avvenuta l’anno prima – , Cuba chiese all’URSS di dotarla di missili nucleari, per difendere la propria indipendenza, e il presidente degli Stati Uniti J. F. Kennedy pose un blocco navale per impedire l’arrivo di questi armamenti, che riteneva una minaccia, il premier russo N. Kruscev accettò di far tornare indietro le sue navi, dietro garanzia che il tentativo di invasione dell’isola non si sarebbe ripetuto. Quando sono in gioco le sorti del mondo, bisogna negoziare.
È questo che il presidente Biden non ha fatto, di fronte alla minaccia russa pur essendo l’unico assolutamente certo che la guerra, in mancanza di un suo impegno sulla neutralità dell’Ucraina (equivalente alla rinunzia di Kruscev di armare di missili Cuba), sarebbe inevitabilmente scoppiata. Perché non ha fatto nulla per impedirla? Si può anche sostenere che Putin non avrebbe per questo rinunziato all’invasione, spinto com’è dal sogno di ricostituire l’antico sistema di potere della Russia sovietica. Ma l’America avrebbe fatto il possibile per evitarla. Invece non ha mosso un dito.
Tornano alla mente le parole di Francesco sulla politica gestita dai grandi come un grande gioco di scacchi per affermare il proprio predominio. Magari sventolando la bandiera di grandi valori etici da difendere… Ma neanche la linea del presidente Zelens’kyi è al riparo da legittime perplessità. Nessuno può mettere in dubbio il suo coraggio e la sua capacità di porsi come simbolo e portavoce, a livello internazionale, del suo popolo
martoriato. Ma in questi suoi due anni di presidenza è stata innegabile la sua tolleranza verso le formazioni neonaziste di cui è espressione, per esempio, il battaglione Azov, e che hanno ampie infiltrazioni anche nell’esercito regolare.
Come lo è stata anche la politica di repressione delle province russofone del Donbass, secondo alcune fonti affidata proprio a questi nazionalisti estremisti. Su tutto questo forse sarebbe stato opportuno chiedere a Zelens’kyi di dare garanzie, già prima dello scoppio del conflitto, ma anche dopo, invece di sostenerlo incondizionatamente, assecondando le sue capacità di imporsi, da consumato attore, sulla scena dei parlamenti occidentali.
Per restare al presidente ucraino, non è rassicurante neppure la sua continua insistenza nel chiedere un sempre maggiore impegno della Nato, inclusa una no-fly zone che, come ripetute volte si è cercato di spiegargli, comporterebbe il serio rischio di una terza guerra mondiale. Ma Zelens’kyi dà l’impressione di considerare questa ipotesi un “danno collaterale” accettabile, pur di vincere la sua guerra.
Perché di vittoria ha più volte parlato, e forse non solo per sollevare il morale dei suoi soldati, se è vero che anche alcune sue proposte di negoziato sono state formulate mescolandole a inopportune minacce, nei confronti della Russia, che le hanno fatte apparire piuttosto delle provocazioni e che certamente non erano adatte a creare il clima adatto per un incontro. Tutto questo non diminuisce di una virgola la fondamentale responsabilità di Putin: gli errori e i limiti degli altri non possono fare dimenticare che è lui ad aver voluto questa guerra. Né si può perdere di vista il dramma di tre milioni di ucraini costretti alla fuga e ridotti alla disperazione per i sogni di grandezza del dittatore russo.
Ma, guardando il quadro che abbiamo tracciato, si capisce la sofferenza del papa: governi aggressori e governi aggrediti rientrano comunque in una logica che è quella della guerra, combattuta o almeno accettata come prezzo per i propri obiettivi, nel misconoscimento delle esigenze reali dei rispettivi popoli. E di quelli di un’umanità sofferente, che avrebbe bisogno di ben altro che di conflitti e della corsa a procurarsi armi per combatterli. Ma questo è un messaggio che nessuno vuole ascoltare e che, perciò, non è stato messo dai giornali sule prime pagine.
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