Una proposta contestata
Sta scatenando un pandemonio la proposta di due esponenti della sinistra, Fratoianni (Leu) e Orfini (Pd) – peraltro subito sconfessata dai partiti di maggioranza –, in cui si prevede l’introduzione di una imposta patrimoniale che redistribuisca, almeno in una piccola misura, la ricchezza degli italiani, anche come misura di solidarietà verso quelli più poveri e più colpiti dalla crisi economica determinata dalla pandemia.
La patrimoniale, questa sconosciuta
La patrimoniale è un’imposta sul patrimonio di un contribuente e non sul suo reddito da lavoro. È una tassa sulla ricchezza detenuta da una persona fisica o giuridica, si tratti di valori mobiliari (conti correnti, titoli finanziari), oppure immobiliari (case, terreni).
In altri Paesi – Francia, Spagna, Svizzera – esiste da tempo, in Italia ha sempre trovato grandi opposizioni. Non senza forti polemiche ha trovato spazio una imposta patrimoniale “selettiva”, che colpisce esclusivamente il patrimonio immobiliare (con alcune rilevanti eccezioni come le prime case non di “lusso”) con una aliquota dello 0,76% applicata ai valori catastali, ossia a valori tendenzialmente molto più contenuti rispetto a quelli di mercato.
La proposta di Fratoianni e Orfini prevede, in concreto, l’abolizione dell’Imu e la sua sostituzione con un’imposta generale sui grandi patrimoni di almeno 500 mila euro.
Il prelievo partirebbe dallo 0,2% per quelli tra 500mila euro e un milione, salirebbe allo 0,5 tra uno e 5 milioni, all’1 percento tra i 5 e i 50 milioni e al 2 percento oltre i 50 milioni di euro. Per il solo 2021 si prevede che per chi ha base imponibile superiore a un miliardo l’aliquota sia del 3%.
Le controindicazioni
Secondo alcune stime l’imposta potrebbe fruttare 10 miliardi l’anno, ma questa cifra è legata al suo successo. Tradizionalmente, infatti, la maggiore obiezione alle imposte patrimoniali è che esse potrebbero scoraggiare gli investimenti o, peggio ancora, incentivare il trasferimento all’estero dei soggetti più facoltosi.
Per non parlare della piaga cronica dell’evasione fiscale, già ampiamente diffusa nel nostro Paese, anche grazie a una legislazione che, per la sua farraginosità, si presta a offrire mille scappatoie a chi è in grado di patgarrsi buoni commercialisti e avvocati.
Per questo la proposta Fratoianni-Orfini prevede, drasticamente, che chi abbia «immobili, investimenti ovvero altre attività di natura finanziaria, suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia» abbia l’obbligo di dichiararli pena «una sanzione amministrativa pecuniaria che va dal 3 per cento al 15 per cento dell’importo non dichiarato».
Le barricate della Lega e di Forza Italia
Dicevo prima che le reazioni sono state durissime. Il responsabile economico della Lega, Alberto Bagnai, ha lanciato un vero e proprio proclama: «Riparte l’assalto ai risparmi degli italiani. Dalla sinistra una misura insensata, che colpisce la classe media senza incidere sui veri grandi patrimoni, tutti custoditi in paradisi fiscali. Si vogliono mettere le mani nei portafogli e nei conti correnti degli italiani già martoriati dalla crisi economica e pandemica. La Lega farà le barricate in commissione e in aula affinché questa vergogna non vada in porto».
Non meno drammatica la lettura della proposta da parte di Forza Italia, che, per bocca di un suo rappresentante, il deputato Andrea Mandelli, l’ha definita una «spada di Damocle sulla testa degli italiani» e «una mina sul futuro del Paese», concludendo, seccamente: «Va bocciata».
La tutela dei patrimoni in Italia e la tassa di successione
Forse è bene ricordare che l’Italia è probabilmente il Paese europeo in cui i grandi patrimoni sono più tutelati. Lo confermano i dati relativi alle imposte di successione. La tassa di successione italiana è infatti la più bassa a livello europeo, con aliquote che oscillano tra il 4 e l’8%. In Germania la tassa di successione oscilla tra il 7% e il 50%, in Spagna tra il 34% e l’86%, in Francia tra 5% al 60%, in Gran Bretagna è del 40%.
Ciò comporta, evidentemente, un contributo assai scarso degl italiani più benestanti alle finanze dello Stato: nel 2018, 820 milioni, ovvero lo 0,05% del Pil. In Francia, per esempio, sempre nel 2018 il gettito dell’imposta su successioni e donazioni è risultato pari a 14,3 miliardi di euro, cioè lo 0,61% del Pil: in altre parole, quasi tredici volte quello italiano. A quota 0,20-0,25% del Pil troviamo invece la Germania (6,8 miliardi), il Regno Unito (5,9 miliardi al cambio del 2018) e la Spagna (2,7 miliardi), tutti Paesi che riescono a incassare quasi cinque volte l’Italia.
La demonizzazione delle tasse
Si capisce, da questo quadro, perché, secondo i dati forniti dal «Sole24ore», il 20% degli italiani detiene quasi il 70% della ricchezza nazionale, un altro 20% nel possiede il 16,9%, mentre il 60% più povero possedeva appena il 13,3% della ricchezza del paese.
È il risultato ovvio di una politica che ha messo sistematicamente in secondo piano, al di là della retorica d’obbligo, il problema della giustizia sociale, lasciando che i ricchi diventassero sempre più ricchi, che il ceto medio si impoverisse e che i poveri diventassero sempre più poveri. È significativo che ormai da decenni si agiti lo spettro delle tasse come un disonesto «mettere le mani nelle tasche degli italiani» (Berlusconi), dimenticando che la redistribuzione fiscale si basa sul fatto che il successo economico dei singoli non è solo frutto della loro bravura o della loro fortuna, ma del lavoro di un’intera società, senza cui gli individui non sarebbero in grado neppure di studiare e di trovare un lavoro.
Le dimissioni della “sinistra”
Ancora più significativo è che la cosiddetta “sinistra”, che tradizionalmente avrebbe dovuto tutelare i più deboli economicamente e socialmente, in questi ultimi anni abbia concentrato in modo quasi ossessivo la sua attenzione e la sua carica “rivoluzionaria” nella rivendicazione di diritti civili individuali – dall’aborto alla fecondazione assistita, dalla coppia omosessuale all’eutanasia –, di tipica matrice liberal-borghese, trascurando quasi del tutto i problemi dei più poveri.
È su questa linea la presa di distanze del Pd di fronte all’attuale proposta Fratoianni-Orfini, che ribadisce quella del 2019, davanti a una analoga avanzata dal segretario della CGIL Landini.
Il problema non è la patrimoniale, ma la solidarietà
Ho già detto prima che, a detta di economisti competenti, ci possono essere anche dei seri motivi per ritenere inopportuno questo strumento fiscale. Il problema, dunque, non è il mezzo – la patrimoniale – che può benissimo essere rimpiazzato con altre misure. Il guaio è che qui è in discussione il fine, la concreta solidarietà con la parte del Paese che stava già male prima del covid e ora si trova con le spalle al muro. Con quel 60% di italiani che prima della pandemia possedeva il13,3% della ricchezza nazionale e che ora si trova ad avere difficoltà a livello di sopravvivenza.
Le favole e il mondo reale
Qualcuno farà subito presente, a questo punto, che non c’è più bisogno di nuove tasse, perché è in arrivo il Recovery Fund. Questa risorsa non va certamente sottovalutata. Ma bisogna anche precisare che se ne parla per lo più in termini favolistici, come se fosse una manna caduta gratis dal cielo. Un regalo delle fate, che non costerà nulla a nessuno.
Nel mondo reale, c’è sempre qualcuno che alla fine deve pagare. E saranno i nostri figli, che si troveranno davanti un debito pubblico ancora maggiore di quello che i nostri padri hanno lasciato a noi e ne saranno schiacciati ancora più pesantemente di come lo siamo stati e lo siamo noi. Invece di fare una legittima scelta di solidarietà, con i limitati sacrifici che comporta da parte di chi ha una sovrabbondanza di risorse, si preferisce scaricare sulle generazioni future i costi del nostro egoismo.
“Comunista” o cristiano?
A chi, dopo queste riflessioni, mi accuserà di essere “comunista” – condividerei questa accusa con papa Francesco, che anche lui se lo è sentito rinfacciare –, faccio presente che secondo la morale della Chiesa cattolica, di cui mi onoro di essere membro – considera doveroso fare della proprietà personale un uso sociale. Lo ha ribadito l’attuale pontefice nella sua ultima enciclica «Fratelli tutti». Ma lo hanno costantemente ripetuto, fin dai primi secoli del cristianesimo, i Padri della Chiesa e tutti i papi.
Nella sua enciclica «Populorum progressio» (1967) ha ricordato le parole del grande vescovo sant’Ambrogio: «Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi». E ha commentato: «È come dire che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario» (n.22).
L’Italia è rimasto uno dei pochi Paesi d’Europa dove la maggioranza delle persone si definiscono – anche se con sfumature molto diverse – “cattoliche”. Ma la parabola del buon samaritano – recentemente ricordata da Francesco nella sua enciclica, e narrata da Gesù per dire quale sia, insieme all’amore per Dio, «il comandamento più grande» – ci costringe in questo frangente storico a chiederci quali scelte possano darci il diritto di dirci, prima che cattolici, cristiani.
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