27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
La liturgia della quarta domenica di Pasqua è dedicata alla figura simbolica del Buon Pastore e contiene un invito forte alla speranza: nonostante la storia sembri segnata da continue violenze e sopraffazioni, se illuminati dalla fede, possiamo scorgere in essa i segni della presenza di Dio.
La seconda lettura presenta un contesto di persecuzione: è tratta dal libro della sezione dei “sigilli dell’Apocalisse” che contrariamente a quanto si possa pensare non preannuncia catastrofi, ma contiene rivelazioni per una teologia della storia.
Nel brano odierno ci troviamo immersi nella celebrazione dell’ottavo giorno: si parla di una moltitudine di uomini redenti “di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” schierati in piedi, faccia a faccia davanti a Dio, vestiti in bianche vesti e con la palma della vittoria in mano (perché hanno vinto sul male). Tutto rimanda all’immagine della risurrezione.
Una voce spiega che questi uomini sono coloro che sono stati resi partecipi della salvezza operata dall’Agnello. Si tratta di “coloro che vengono dalla grande tribolazione”, uomini che soffrendo per amore e strutturando la loro vita come dono gratuito di sé. sono stati resi partecipi della passione di Cristo. Cristo vuole condividere allora non solo il dolore, ma anche e soprattutto la Sua risurrezione: offre a coloro che sono stati capaci di immolarsi una vita nuova, dove “non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna”.
L’Agnello sarà per loro Buon Pastore: li guiderà a sorgenti di acqua viva dove potranno finalmente dissetarsi e le loro lacrime saranno asciugate per sempre. L’immagine del Pastore e delle sue pecorelle del Vangelo è strettamente connessa alla moltitudine di cui si parla nell’Apocalisse, perché l’Agnello sacrificato sulla croce è il Buon Pastore che ha offerto, per amore, la sua vita per il gregge. Le pecorelle ascoltano la voce del Pastore, perché la sua è una voce d’amore: “Io do la vita eterna!”
I versetti del Vangelo presentano il modello di un amore assoluto, che si dona senza limiti; un amore autentico e inclusivo, fondato sulla conoscenza, sull’offerta della vita e sulla comunione tra Padre e Figlio. La conoscenza in questo caso non è indicata come un atto puramente intellettuale né gnostico, ma il verbo “conoscere” nella Bibbia rimanda a una relazione di autentica intimità che esige impegno, cura, responsabilità, amore.
La vita cristiana nasce dall’esperienza di profonda conoscenza, di appartenenza al Padre e al Figlio; non si tratta di appartenenza nominali e formali, ma di entrare in una relazione radicale con Dio. Il dono della vita è il segno di questa intimità profonda. Il Pastore offre la vita per il suo gregge, per ogni singola pecorella, cercando anche quelle che si sono smarrite. Egli non è un mercenario, non cerca la propria sicurezza e il proprio interesse, ma è un Dio che ama tutti, che vuole salvare tutti.
La dinamica di questo amore assoluto permea tutto il Vangelo di Giovanni, guidandoci a penetrare nella relazione tra Padre e Figlio. Si tratta di un legame impegnativo che implica l’obbedienza e il dono della vita ma al tempo stesso solo dalla relazione autentica tra Dio e l’Uomo, dalla vera intimità, che nasce l’impulso gratuito, creativo, efficace, per uscire dalla dimensione egoistica del se ed aprirsi agli altri, al mondo e per andare sino “al compimento supremo”, per poter vivere come Cristo da risorti.
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