Introduzione alla lectio divina su Lc 17, 5-10
06 ottobre 2013- XXVII domenica del tempo ordinario
Gli apostoli dissero al Signore: 6“Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. 7 Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
Parabola della senape
Icona della Abbazia di S. Maria di Pulsano (Foggia).
“Può forse l’uomo giovare a Dio?” (Gb 22,2).
La domanda è rivolta ad un uomo giusto, Giobbe, che ha levato contro il cielo il suo doloroso lamento perché la sua integrità morale, la sua osservanza fedele non ha ottenuto da Dio l’adeguata ricompensa. Anzi. Privato dei beni e degli affetti, egli si trova ora al culmine della miseria, prostrato davanti agli uomini. Proprio da questa condizione estrema di male partiva l’accusa contro Dio che non ha dispensato il bene al servo obbediente. A cosa è servito, allora, osservare la giustizia e rispettare la legge di Dio? La verità che Giobbe udrà sarà ben altra e chiamerà in causa la sua fede e la sua idea di Dio. La prima spiegazione che gli viene fornita è proprio questa: l’utilità non è una buona categoria per pensare Dio.
In un cristiano osservante della legge divina e della giustizia, impegnato nella quotidiana sequela del Signore in opere e parole, può insorgere ad un certo punto l’attesa di un bene che lo ricompensi dall’alto o, a guardar lontano, di una salvezza finale in qualche modo guadagnata con le proprie buone opere. A ribaltare decisamente di segno l’idea moderna dell’“essere utili a qualcosa” arriva oggi la Parola di Gesù che invita il cristiano a pensarsi quotidianamente come servo inutile (il greco achreios equivale a «inutile», ma anche a «insignificante, senza importanza»). La qualità cristiana sarebbe insomma proprio l’inutilità, valore che rappresenta in sé l’esatto contrario dell’utilità, costante appannaggio dell’uomo moderno e della sua arte tecnica.
Ancor prima che rivelarsi nell’esperienza con gli altri, l’inutilità del cristiano si misura innanzitutto nel rapporto con Dio. La cornice di riferimento del brano è, infatti, la fede. Ben consapevoli di essere deboli nel perdono dell’altro, del tutto incapaci di riuscire a perdonarlo «fino a settanta volte sette» come ha appena chiesto Gesù (Lc 17,4), gli apostoli formulano a Gesù una richiesta precisa: «Aumenta la nostra fede!».
E’ sempre la contraddizione, la difficoltà a farci conoscere “quanta fede abbiamo”. Il perdono illimitato ci mette in discussione come credenti perché da ciascuno, come già dagli apostoli, esso è percepito come un ostacolo insormontabile, come un atto impossibile per ogni uomo se non poggia su un personale e pieno abbandono a Dio. Perdonare l’altro non è affatto diverso dallo sradicare i monti (Mc 11,23) o i sicomori dal terreno e ordinar loro di ‘trapiantarsi nel mare’. Tuttavia, sembra dire Gesù, siamo noi stessi il primo albero da sradicare da alcune presunte certezze che solo la sua Parola ha la forza di far vacillare.
Ecco allora una parabola a mettere in crisi il mito moderno dell’autosufficienza e dell’autonomia: un servo torna dal campo e, invece di ristorarsi, si affretta a servire a tavola il padrone. Soltanto dopo penserà a se stesso e ai suoi bisogni. Per questo fedele servizio non riceverà alcuna ricompensa, né avrà alcuna gratitudine da parte del padrone. La similitudine del servo non intende identificare il rapporto uomo-Dio con quello di schiavo-padrone, né affermare che le azioni dell’uomo e la sua fedeltà siano prive di valore dinanzi a Dio (Rossè). Ad essere preso di mira da Gesù è piuttosto il comune atteggiamento dell’uomo che avanza diritti e pretese verso Dio, come in una sorta di scambio o compravendita di beni. Meglio pensare ad un Dio ‘inutile’ o inutilizzabile, come scriveva il teologo Dietrich Bonhoeffer, non ad un deus ex machina buono a risolvere tutti i problemi, una sorta di ‘tappabuchi’ invocato ad ogni ora come idolo domestico.
Ecco allora la figura del servo a rammentarci la nostra assoluta dipendenza da Dio e, insieme, a frenare la tentazione al vanto. Pur avendo soddisfatto i bisogni e aver adempiuto al servizio, il cristiano è ‘un servo inutile’: dal servo impara, innanzitutto, l’umiltà della sua condizione.
L’umiltà è una buona categoria per pensare Dio. Dirà infatti Gesù «chi è più grande chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27). Umile servitore degli uomini è Gesù, il Servo di Jawhe (Is 42,1) che salva gli altri ma rinuncia a se stesso: rinuncia a scendere dalla croce e svuota la propria divina potenza per riempire la mancanza dell’uomo. La gloria di Dio si fa debole e invisibile come un umile servo in mezzo al mondo, chino per terra a lavare i piedi sudici degli uomini.
Quale ricompensa chiede Gesù ai discepoli mentre, da servitore, lava loro i piedi? Quale contraccambio è loro richiesto per la croce? Nessuno, perché non c’è alcun compenso per l’amore.
Chi ama si dona agli altri fino a privare se stesso anche della vita.
Chi ama serve prima gli altri.
Chi ama non attende gratitudine, né avanza diritti e pretese.
L’amore non è utile. E’ dono, è grazia ‘gratuita’ -non ricompensa- che anzi sovrabbonda laddove più grande è abbondato il peccato (Rm 5,20).
Isabella Tondo
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