di Luciano Sesta
1. Disaccordi faultless e libertà di sbagliare
Nella prima parte di questo articolo, come il lettore ricorderà, si era citata una pagina di Tommaso d’Aquino in cui la legge morale veniva accuratamente distinta, anche se non separata, dalla legge civile. Ne avevamo ricavato una preziosa indicazione per alleggerire i “toni” dell’aspra lotta che, in nome della morale, conducono sia i difensori che gli avversari della cosiddetta “teoria del gender” e, soprattutto, dei diritti civili degli omosessuali. Il secondo spunto che vorrei ora trarre da Tommaso si trova nella Iª-IIae q. 19 art. 10, sempre della Summa theologiae, dove l’Aquinate si domanda se «dobbiamo volere sempre ciò che Dio vuole». La sua risposta, sorprendentemente, è “no”. E questo per il semplice motivo che noi non possiamo sempre sapere cosa Dio vuole, ossia cosa Dio vuole che accada. Invece, prosegue Tommaso, noi dobbiamo volere «ciò che Dio vuole che noi vogliamo», ovvero «ciò che Dio vuole da noi»: il rispetto dei comandamenti e l’amore del prossimo. L’esempio di Tommaso d’Aquino, come spesso accade, non può essere accettato alla lettera, ma è significativo per illustrare il concetto: un giudice ha il dovere di ricercare il delinquente per punirlo; la moglie del delinquente, invece, ha il dovere di aiutare il suo uomo a nascondersi. Come il giudice deve tutelare la sicurezza pubblica, così la donna, in quel caso, deve tutelare il bene della famiglia. Entrambi, secondo Tommaso, stanno facendo esattamente ciò che devono fare, ovvero ciò che Dio vuole che essi vogliano. Nessuno dei due, né il giudice né la donna, ha una responsabilità per il bene in quanto tale, al quale Dio pensa molto meglio. E questo bene, dice Tommaso, è ciò che Dio vuole che accada e che poi di fatto accade: ovvero che il delinquente venga preso o riesca a sottrarsi alla cattura. Ciò che Dio vuole, dunque, se mai possiamo realmente saperlo, lo apprendiamo solo “strada facendo”, e la qualità di buoni credenti, secondo Tommaso, la mostrano sia la donna sia il giudice nell’accettare con serenità l’eventuale insuccesso dei loro sforzi.
Da quest’ultima pagina di Tommaso si può ricavare una massima “secolarizzata” per il nostro tema, che può anche aiutare a ridimensionare i toni apocalittici che caratterizzano alcune delle voci del dibattito in corso: quando si tratta di battaglie in nome dei diritti di soggetti considerati vulnerabili (i bambini, da un lato, gli stessi omosessuali, dall’altro lato), si tende a una lotta senza quartiere, in cui persino i colpi bassi, come la deformazione retorica della posizione dell’avversario, sono giustificati in nome dell’importanza della causa (si parla non a caso, ma per motivi opposti, di “emergenza educativa” da entrambi i lati). Fra le righe della pagina di Tommaso, invece, troviamo una piccola etica della lotta civile, in cui ciascun attore, benché consideri come proprio dovere far fallire l’impegno dell’altro, gli riconosce, sin dall’inizio, la buona fede, e dunque un genuino diritto di battersi per la sua causa. Se si pensa che un cittadino omosessuale non abbia diritto alla reversibilità della pensione del compagno, o al ricongiungimento, gli si riconoscerà però un genuino diritto a battersi per ottenere questo diritto. Viceversa, se si pensa che non esista alcun diritto dei bambini a vivere e a crescere in una famiglia composta da genitori di sesso opposto, si riconoscerà ad altri il diritto di battersi per affermare questo diritto. Certo, non sempre e non su tutto si può ammettere il diritto di battersi per ottenere ciò che ai nostri occhi è un’ingiustizia. Quando però lo si ammette, e sul nostro tema siamo a mio avviso in dovere di farlo, allora la lotta, pur essendo dura, si mantiene leale. E non si tratta certo di relativismo, come finemente Tommaso dimostra. Si tratta piuttosto di ricordare che lotta lealmente solo chi è disposto anche a perdere, perché solo chi è disposto a perdere dimostra che il bene che intende promuovere è davvero comune nel senso prima precisato, ossia è un bene che può essere riconosciuto solo liberamente e mediante un percorso, non scontato, di convinta adesione a ciò che è giusto anche quando può richiedere il sacrificio di interessi privati, nostri o altrui.
Potremmo dire che in questa disponibilità a perdere è implicita non solo una saggezza liberale, ma anche la vecchia asimmetria fra doveri positivi e doveri negativi, che la tradizione occidentale, sin da Platone, ha sempre sostenuto. Mentre si conduce la propria battaglia civile, in altri termini, non si dovrebbe dimenticare che il dovere di promuovere il bene non può mai coincidere con il dovere di impedire il male. Mentre infatti il primo dovere impegna innanzitutto la nostra libertà e solo indirettamente – e non necessariamente – la libertà altrui, il secondo trova nella libertà altrui un limite invalicabile, non solo di fatto, come quando non riusciamo a impedire un attacco terroristico, ma anche di principio, come quando accettiamo di non poter costringere fisicamente qualcuno a salvarsi la vita o a salvarla, come nei casi dell’alimentazione forzata di chi lucidamente si oppone o dell’aborto. E se oggi, in Italia, esistono cittadini che, pur ritenendo gravemente ingiusta una legge che consente l’aborto, la tollerano come frutto di una procedura democratica valida, a fortiori bisognerà essere pronti ad accettare non solo l’approvazione, ma anche l’eventuale rifiuto dei same-sex marriage. Dietro il velo di ignoranza di una posizione imparziale, infatti, una società che limita la libertà di alcuni dei suoi cittadini è pur sempre preferibile a una che autorizza la loro soppressione prima che nascano.
Se non implica relativismo, la disponibilità ad accettare l’insuccesso delle proprie battaglie civili non implica nemmeno fatalismo, perché non significa rinuncia a proseguirle nello stesso spirito. Questa disponibilità a perdere, si potrebbe dire, è solo l’altra faccia del carattere interpersonale e plurale della coesistenza civile, in cui non è possibile addomesticare l’altro a tal punto da renderne impossibile il dissenso. Un pieno e positivo riconoscimento di questa circostanza è non solo la premessa, ma anche il criterio di ogni battaglia civile, caratterizzata da disaccordi che, se non sono sempre ‘ragionevoli’, possono almeno essere faultless, non colpevoli, ossia in buona fede. È sempre possibile, infatti, che l’altro dissenta sinceramente su ciò che, ai miei occhi, è invece di vitale importanza.
2. Dalle persone alla politica e ritorno: agire sulla società o nella società?
Nella prima parte di questo nostro articolo, nel precedente numero di “Tuttavia”, dichiaravamo di voler fornire una sorta di arbitraggio del dibattito civile su gender, famiglia e rivendicazioni omosessuali. Questo, come si sarà visto per chi ha letto la prima parte, non significa che chi scrive non si sia lasciato guidare da una ben determinata posizione. Se è vero, come si è detto, che il legame familiare accomuna gli interlocutori del dibattito ben al di là della stilizzazione ideologica che essi, in positivo e in negativo, finiscono per offrirne, allora forse si potrà tornare a parlare di un “primato” della famiglia naturale nell’unico senso possibile, e cioè nella forma di una realtà che non si contrappone reattivamente a ciò che sembra metterla in crisi, ma che continua invece a ospitarlo come parte di un tessuto di relazioni che non possono né devono spezzarsi. La famiglia è “naturale”, in quest’ottica, perché è capace di sostenere anche l’artificio che le si contrappone, allo stesso modo in cui l’arte si contrappone alla natura non perché l’annulli, ma perché ne è un’imitazione. E qui ci sarebbe ben più che una metafora, visto il carattere mimetico, rispetto alla famiglia tradizionale, di molte delle rivendicazioni omosessuali. Il primato della famiglia, in altri termini, non potrà mai emergere da un’enfatizzazione polemica che la vede reagire contro qualcosa o contro qualcuno, ma solo facendo notare che essa è presente anche nelle rivendicazioni di chi apparentemente la mette in crisi. Non solo perché siamo tutti figli di un uomo e di una donna, ma anche perché la famiglia continua a rimanere il modello ideale di qualunque relazione che non voglia ripiegarsi su se stessa, aprendosi al più ampio contesto sociale in cui è inserita e alla cui vitalità contribuisce. Il carattere decisamente pubblico delle rivendicazioni omosessuali, con il conseguente rifiuto di relegare l’affettività a una faccenda puramente privata, ne sono un’evidente conferma. Nell’idea che un pieno riconoscimento delle unioni gay rappresenti un segno di civiltà per tutti, non solo per gli omosessuali, c’è in effetti qualcosa della tradizionale convinzione che la famiglia sia la prima cellula della società.
È dunque nel quadro della società, prima ancora che della politica, che si gioca la partita decisiva. Se è vero, come ha scritto Norberto Bobbio, che «La sfera politica è inclusa in una sfera molto più ampia, la sfera della società nel suo complesso, e non vi è decisione politica che non sia condizionata, o addirittura determinata, da ciò che avviene nella società civile», allora per condizionare la politica bisogna agire sulla società. Ma per agire sulla società bisogna agire sulle persone che la compongono. La domanda è: si può agire “su” una persona? Gli altri non sono un “oggetto” su cui agire. È questo, in fondo, l’ethos implicito della democrazia, in cui l’altro non può mai essere l’oggetto di una manipolazione, ma sempre e solo il soggetto di un confronto e di una discussione. Allora, più che “agire sulle” persone, si tratta di “interagire con” le persone. E bisognerà capire se il modo migliore di farlo è lo scontro tra fazioni (le manifestazioni di piazza e la logica del numero) oppure un paziente confronto tra ragioni (il dialogo personale, che può svolgersi anche nella pubblicistica ben fatta). Il primo modo di agire ha spesso l’effetto di inasprire l’avversario e di chiamarlo a sua volta in campo a mostrare i muscoli, dimenticando che, quando sono in gioco rivendicazioni di diritti, la tendenza giurisprudenziale (e di rimando anche legislativa) è di tutelarli sottraendoli al potere delle maggioranze, popolari e parlamentari. Se la logica del numero e delle manifestazioni di piazza è utile, allora, lo è forse non per cambiare le leggi che un Parlamento sta per approvare, ma solo per contare il numero di quelli che non le accettano e per coltivare un senso di appartenenza. Il secondo modo di agire è forse ancora più utile, perché, anche se più faticoso e meno appariscente, può formare l’opinione pubblica che, in tempi non prevedibili, forse domani, forse mai, cambierà la società, dunque la politica e, infine, anche le leggi. E, se ciò non accade, sarà comunque una vittoria, perché si sarà svolto il proprio lavoro interagendo con le persone, evitando di allestire uno scontro fra sigle impersonali, che ha il pericoloso effetto di rendere un padre di famiglia nemico giurato di un omosessuale che neanche conosce e che, forse, è suo figlio.
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