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Per un’etica della lotta civile. La questione del “gender”, la famiglia e le rivendicazioni omosessuali

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di Luciano Sesta

 

 

 

1.Catastrofisti e negazionisti

 

L’obiettivo di questo articolo, che si svolgerà in due puntate, è tanto ambizioso quanto modesto. È ambizioso perché vorrebbe fare un minimo di chiarezza sull’atmosfera convulsa e infuocata che sta accompagnando in Italia il dibattito pubblico sulla cosiddetta teoria del gender. È però al tempo stesso modesto, perché non entra nel merito delle questioni dibattute (rapporti natura-cultura nella determinazione dell’identità di genere, diritti delle coppie omosessuali, lezioni di educazione gender nelle scuole ecc.), limitandosi a profilare una piccola etica della lotta civile. La tesi che vorrei sostenere, al riguardo, è che i due schieramenti in gioco, che chiamerei partito catastrofista e partito negazionista, hanno entrambi torto e ragione. E poiché in questo caso il torto di ciascuna delle due posizioni consiste in una deformazione retorica delle giuste rivendicazioni dell’altra, fare chiarezza significa arbitrare il conflitto e, al tempo stesso, lasciare emergere l’intreccio dei tre piani che lo rendono inevitabile: il piano esistenziale, quello giuridico-politico e quello religioso.

Il faticoso esercizio di tenere distinti questi piani non può avere lo scopo, impossibile e anche inopportuno, di impedirne ogni sovrapposizione, ma di evitare che il loro fisiologico intreccio sfugga al controllo dell’attore coinvolto, sia a livello individuale sia sociale. Solo svolgendo questo lavoro si potrà parlare di un’etica della lotta civile, e dunque di una gestione responsabile dei conflitti che nascono intorno all’interpretazione di quale bene sia davvero comune. Non si finirà mai di precisare, infatti, che il bene comune non è un bene necessariamente condiviso (e nemmeno un punto di equilibrio e di compromesso fra posizioni contrastanti), ma, secondo un’accezione platonica più o meno consapevolmente adottata sia dai catastrofisti che dai negazionisti, il bene che tutti riconoscerebbero se fossero illuminati su ciò che è veramente giusto al di là del proprio interesse individuale o di quello altrui. Che anche nel dibattito italiano prevalga questa accezione ‘illuministica’ di bene comune, è dimostrato dalle frequenti accuse di cecità, che rimbalzano da una parte e dall’altra, nei confronti di ciò che sarebbe luminosamente evidente: i diritti dei bambini, da un lato, quelli delle persone omosessuali, dall’altro lato. 

Riconosco che chiamare rispettivamente “catastrofista” e “negazionista” i due schieramenti non è affatto neutrale, e non rende giustizia alla varietà e molteplicità delle posizioni presenti sul campo. Assumendo però uno sguardo che, se non è neutrale, tenta almeno di essere imparziale e comunque descrittivo rispetto a ciò che osserva, non si può negare che il dibattito che stiamo analizzando sia prigioniero di un meccanismo di azione e reazione che, mentre contrappone i due fronti, finisce per occultarne le rispettive ragioni. La causa più immediata di questa situazione di stallo è lo scollamento fra due livelli del dibattito: quello accademico sui c.d. Gender studies e quello pubblico, che si sta svolgendo nella più ampia cornice della società civile. A livello accademico, com’è naturale, si assiste infatti a una molteplicità di approcci teorici al problema, per cui non è possibile affermare l’esistenza di una vera e propria teoria del gender e, a fortiori, di un’ideologia del gender. Anche qualora vi fossero, come vi sono, degli studi-pilota che hanno inaugurato il dibattito, non sarebbe scientifico bollarli di ideologia. A livello di dibattito pubblico, invece, di fronte a determinate iniziative politico-legislative e al modo in cui sono sostenute, si ha la percezione di una strategia compatta e capillare, che sta colonizzando gli spazi del diritto, della cultura e dell’educazione. Anche se non dovesse esistere alcuna potente lobby che sta soggettivamente pianificando una gender-crazia, è innegabile che legislazioni ordinarie, decreti, sentenze e iniziative culturali, esprimano una tendenza oggettiva a sovvertire il primato della famiglia, intesa come «società naturale» fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna (art. 29 Cost.)

Va detto che ciascuna di queste due tesi è vera nell’ambito in cui è formulata, ma non vale per l’altro. A un militante del comitato “Difendiamo i nostri figli” non importa sapere che, dai Gender Studies, non possiamo ricavare alcuna ideologia gender, ma se il proprio figlio dovrà essere coinvolto nel “Gioco del rispetto” proposto per l’educazione alla diversità nelle scuole. E quando, invocando i Gender Studies, l’attivista dell’Arcigay replicherà negando l’esistenza di un’ideologia gender, lo farà riferendosi a un piano diverso da quello in cui l’interlocutore la afferma. Da qui il paradosso: negando e affermando l’esistenza di un’ideologia gender, gli interlocutori dicono entrambi qualcosa di vero, che mentre li conferma nelle rispettive posizioni, rende fatalmente catastrofista l’una e negazionista l’altra.

Ma veniamo sinteticamente ai motivi dello scontro. Il primo schieramento, che ha preso corpo e visibilità dopo la manifestazione organizzata a Roma nello scorso giugno dal Comitato “Difendiamo i nostri figli”, sostiene che è in atto un progetto di smantellamento antropologico della differenza sessuale, progetto ben sintetizzato da un’espressione-bersaglio, e cioè appunto “ideologia gender”. Si tratterebbe di un progetto ‘ideologico’ non solo perché deformerebbe la realtà, ma anche perché, esprimendo gli interessi di un’abile e spregiudicata minoranza, starebbe avvenendo sottobanco, e cioè mediante una legge dello Stato che, senza consultare gli elettori direttamente coinvolti, mira a una rieducazione sessuale dei loro figli.

Il secondo schieramento nega che esista qualcosa come un’“ideologia gender”, che considera solo un fantasma generato dalla paura di chi è incapace di accettare una realtà ben più complessa e sfumata di quanto non facciano credere gli schemi con cui l’abbiamo tradizionalmente interpretata. Si ricorda, inoltre, che non esiste nemmeno una “teoria” del gender. Quella che così è chiamata sarebbe piuttosto una doverosa opera di promozione delle pari opportunità fra i generi, al di là del dato biologico della differenza sessuale. Una delle implicazioni più dirette di quest’opera di promozione è la lotta contro ogni forma di discriminazione dei cittadini sulla base del loro orientamento sessuale, e, dunque, contro l’omofobia, considerata il principale ostacolo alla realizzazione dei diritti civili delle persone omosessuali. 

 

 

2. Un conflitto fra “stranieri morali”… che potrebbero essere parenti

 

In entrambi i casi ciascuno dei due schieramenti considera un’ideologia, ossia un’imposizione violenta, anti-democratica e immorale, ciò che all’altro appare invece come un valore irrinunciabile, non negoziabile, che l’intera società dovrebbe promuovere e tutelare considerandolo un vero e proprio diritto. A questo riguardo, il filosofo morale Richard M. Hare ha scritto che  «è difficile trovare un’affermazione che faccia fiduciosamente appello a un diritto che non possa essere contrastata con altrettanta fiducia da un’affermazione che fa appello a un altro diritto».Per usare una fortunata espressione stavolta di Hugo T. Engelhardt, ci troviamo di fronte a uno scontro fra “stranieri morali”, che però, viene subito da aggiungere, potrebbero anche essere parenti. Chi difende la famiglia naturale, infatti, lo fa contro le rivendicazioni di alcuni dei suoi figli. E, specularmente, chi avanza queste rivendicazioni, nella stragrande maggioranza dei casi, non è un figlio di una coppia omosessuale, ma di una famiglia tradizionale. E non si tratta di un semplice dato di fatto biologico (come potrebbe fare intendere l’espressione “famiglia naturale”) o sociologico (come lascia credere l’espressione “famiglia tradizionale”). Le relazioni biologiche instaurate dalla famiglia naturale, infatti, sono sempre, al tempo stesso, relazioni personali. Contrariamente agli altri mammiferi, i cui piccoli, una volta emancipatisi dalle cure materne, hanno nei confronti della madre lo stesso rapporto che hanno nei confronti di qualunque altro membro della specie, i membri della specie homo sapiens contraggono, nelle relazioni familiari naturali, legami interpersonali insostituibili e irreversibili. Mia madre resta per sempre mia madre, a prescindere dalla qualità del rapporto che posso avere con lei. L’ottica “familiare”, in cui ciascuno è non solo se stesso, ma anche fratello-di, padre-di, figlio-di, tradizionalmente considerata spersonalizzante, assume qui, al contrario, un effetto di personalizzazione. Solo quando è guardato come un possibile fratello, padre o figlio, l’altro è considerato infatti in primo luogo come una persona con cui si è in relazione, e, solo in secondo luogo, come un cittadino, un cattolico, un omosessuale o un politico. La famiglia naturale, da questo punto di vista, unisce i contendenti del nostro dibattito in un modo ben più stretto di quanto ciascuno di essi sia disposto a concedere nel momento in cui ne fa ora un vessillo ora un bersaglio. Soprattutto quando, da tessuto di relazioni che unisce le persone che realmente esistono e discutono – sempre figli, sorelle, fratelli e genitori –, essa diventa l’oggetto astratto di uno scontro ideologico fra “cittadini” senza nome e senza volto. Con lo sgradevole effetto di far apparire i difensori della famiglia tradizionale, soprattutto quando scendono in piazza con i propri figli, come gente che esibisce se stessa a norma di ciò che è buono e giusto, e i promotori dei diritti omosessuali come gente che, accusando complessi di inferiorità nei confronti della famiglia “vera”, ne cerca un’imitazione che finisce per sottolineare l’incapacità di accettare la specificità della propria condizione. Vorrei brevemente indicare le implicazioni di questa sorta di presenza nascosta della famiglia in un dibattito fra interlocutori che, al contrario, credono di averla di fronte come oggetto di contesa. Ne ricaverò infine, con l’aiuto di una pagina di Tommaso d’Aquino, anche una breve indicazione etico-politica sullo stile con cui condurre le proprie battaglie civili.

 

 

3. Sentire comune, morale e diritto

 

Affermando che la tutela giuridica delle coppie omosessuali costituisce un attacco diretto alla famiglia naturale, a livello esistenziale i catastrofisti sembrano attribuire a un nemico esterno, le rivendicazioni omosessuali, una crisi che è invece tutta interna alla famiglia “naturale” che essi difendono. La famiglia tradizionale, a ben vedere, più che dalle rivendicazioni degli omosessuali, è minacciata dal fatto che chi la compone non sempre è in grado di vivere pienamente all’altezza della propria vocazione. O, peggio, dall’inconscio rifiuto di fare i conti con la propria incapacità di trasmettere quegli stessi valori che si pretende di vedere incarnati negli altri. Così, quando si fa della famiglia “naturale” un baluardo contro le rivendicazioni degli omosessuali, la si trasforma, in piena eterogenesi dei fini, in un costrutto “artificiale”. Gli omosessuali stessi, come si è infatti detto, provengono da una famiglia naturale. Ogni battaglia civile che, in nome della famiglia, è incapace di rendere visibile questo dettaglio, non è all’altezza del proprio ideale, perché trasforma la famiglia da grembo accogliente ed effettiva patria di tutti, in un partito fra i tanti, la cui vittoria è legata alla sconfitta degli altri.

Il fronte negazionista, d’altra parte, è spesso incline a una pur comprensibile vittimizzazione, sia delle donne che degli omosessuali, mostrando una tendenza a omologare qualunque posizione critica sotto l’etichetta di “sessismo” o “omofobia”, e risparmiandosi così la fatica di un discernimento più attento della diversità delle posizioni in campo e dell’eventuale pertinenza delle loro ragioni. Senza contare che, anche qui, si rischia di proiettare su un nemico esterno un conflitto interno al proprio vissuto familiare, i cui nodi irrisolti diventano i termini di una battaglia contro un intero mondo, considerato spietato e bigotto, ma a cui, al tempo stesso, si vorrebbe estorcere un riconoscimento simbolico della propria condizione affettiva, ritenuta implicitamente incapace, senza quel riconoscimento, di assicurarsi una piena normalità.

Le incongruenze dei due schieramenti a livello esistenziale si registrano anche sul modo di considerare il piano giuridico, dove si assiste alla falsa alternativa fra un diritto chiamato a guidare, se non a riplasmare, il sentire comune, e un diritto che se ne dovrebbe al contrario lasciare guidare. Da un lato, fra i catastrofisti, si dice che una minoranza di politici e di cittadini omosessuali sta imponendo la propria ideologia al sentire comune della maggioranza degli altri cittadini (ddl Cirinnà); ma, dall’altro lato, si parla dell’ideologia gender come ‘pensiero unico’ ormai dilagante, contro cui si rivendica il diritto di dissentire, anche se si è in minoranza (ddl Scalfarotto). Fra i negazionisti, invece, per un verso si ritiene che il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali sia ormai una realtà diffusa, e che dunque anche il nostro Paese, seguendo il trend, dovrebbe ratificare; per altro verso si dice che le resistenze tradizionali nei confronti dei diritti civili degli omosessuali, in forma di omofobia, sono ancora talmente radicate da richiedere un deciso intervento del diritto per limitarle e rieducarle. Come si può notare, il sentire comune è ora un alleato, di cui il diritto deve farsi fedele espressione, ora un nemico, che il diritto deve contrastare e disciplinare.

Come uscire da questa impasse? Non si può rispondere nello spazio di un breve intervento. Propongo solo due spunti ricavati da Tommaso d’Aquino, applicabili a entrambi gli schieramenti in campo.

Il primo spunto offre un criterio generale di interpretazione dei rapporti fra morale e legge civile, che può aiutare molto rispetto al nostro tema, dissolvendo alcuni presupposti impliciti che caratterizzano le posizioni più intransigenti. Naturalmente non si può accettare, e non solo per ragioni di political correctness, l’uso tommasiano del termine “vizio” per indicare ciò che, nel nostro dibattito, è il punto di partenza della rivendicazione di un diritto civile. Dovendo però applicare l’interpretazione di Tommaso a entrambe le posizioni,  sotto “vizio” possiamo leggere non solo ciò che i catastrofisti pensano dell’“omosessualità”, ma anche ciò che i negazionisti pensano dell’“omofobia”. Vale la pena citare per esteso le pagine di Tommaso:

«La legge positiva non proibisce, con i suoi precetti, tutti gli atti viziosi, come non comanda tutti gli atti virtuosi […]. Le leggi devono essere imposte agli uomini secondo la condizione in cui si trovano […]. Ora, […] la stessa cosa non è ugualmente possibile all’uomo virtuoso e a chi è privo di virtù; come non è ugualmente possibile al bambino e all’uomo maturo. Ecco perché non si fissa una medesima legge per i bambini e per gli adulti: ché ai bambini si permettono delle cose, punite o riprovate dalla legge negli adulti. Allo stesso modo si devono permettere agli uomini imperfetti nella virtù molte cose, che sarebbero intollerabili negli uomini virtuosi. Ora, la legge umana vien data per la massa, in cui la maggior parte è formata di uomini non perfetti nella virtù. Ecco perché da questa legge non sono proibiti tutti i vizi da cui i virtuosi si astengono; ma soltanto quelli più gravi, dai quali è possibile ritrarre la massa; e specialmente quelli dannosi per gli altri, senza la cui proibizione non può sussistere l’umana società, quali l’omicidio, il furto e simili. La legge umana intende portare gli uomini alla virtù, però non di colpo, ma gradatamente. Perciò non impone subito a una massa di persone imperfette cose riservate a persone già virtuose, come l’astensione da ogni male. Altrimenti codesta gente imperfetta, nell’incapacità di portare una legge simile, cadrebbe in mali peggiori (Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Iª-IIae q. 96 a. 2.; Iª-IIae q. 96 a. 3 ad 1; Iª-IIae q. 96 a. 2 ad 2 2.).

   Se la legge non coincide con la morale, e non può dunque proibire tutti gli atti immorali ma solo quelli che, se non venissero vietati, renderebbero impossibile vivere in società, allora si tratta di capire se i diritti civili delle coppie omosessuali e la libertà di esprimere critiche alla rivendicazione di questi diritti (se questa è l’omofobia), renderebbero davvero impossibile la convivenza sociale. Si potrebbe dire che forse non la renderebbero impossibile, ma soltanto ingiusta o imperfetta. Questo è però scontato per qualunque società, in cui le diverse opinioni di cosa sia una società giusta devono poter coesistere. Il diritto, insomma, può diventare il braccio armato della morale, e limitare la piena libertà di unione (omosessuale) e di espressione (contro l’omosessualità)? Se usata come criterio, la concezione “mite” del diritto che emerge dalla pagina di Tommaso, io credo, sancirebbe come totalitaria sia una legge che condanni l’omofobia, se con il termine omofobia si intende qualunque riserva morale sul comportamento omosessuale, sia una legge come quella che, in Russia, sanziona ogni richiesta pubblica di ottenere diritti civili da parte degli omosessuali [fine della prima parte].

 

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