di Luciano Sesta
Qualche anno fa, in un editoriale di “Bioethics”, una delle più prestigiose riviste di bioetica a livello internazionale, gli Autori hanno parlato di “Global Renaissance for Bioethics”, intendendo con questa formula un allargamento di prospettive che costringe la bioetica a uscire dalle strettoie in cui si è auto-confinata in quarant’anni di dibattiti su aborto, eutanasia, ingegneria genetica, clonazione ecc. Da alcuni anni, infatti, in seno ad agenzie dell’ONU, sono sorti diversi comitati di etica e di bioetica, grazie ai quali si è reso possibile un fruttuoso scambio fra membri non soltanto di differente impostazione filosofica – come già avviene nei comitati presenti in contesti culturali omogenei – ma anche di diversa provenienza geografica e culturale. Questa feconda interazione culturale ha consentito di aprire gli occhi sul carattere spesso unilaterale dell’agenda bioetica che si è imposta a livello pubblico in occidente. Occupandosi prevalentemente di questioni come la fecondazione assistita, la diagnosi prenatale, l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, la bioetica rischia infatti di limitarsi a problemi tipici dei paesi ad alto sviluppo tecnologico, dimenticando l’esistenza di un’altra vasta area di problemi, come quelli caratteristici dei paesi poveri, relativi principalmente all’allocazione di risorse sanitarie in una situazione di grave bisogno e di scarsa disponibilità.
Un forte invito a riscoprire quest’area dimenticata di problemi è venuto qualche anno fa dalla Universal Declaration on Bioethics and Human Rights, pubblicata per conto dell’Unesco il 19 ottobre 2005, che pone la questione dell’«acces to adequate nutrition and water» (art. 14, b, ii), oltre che «to quality health care and essential medicines, especially for the health of women and children» (art. 14, b, i), come fattispecie che rientrano a pieno titolo nell’orizzonte della bioetica e della tutela dei diritti umani. Nell’ottica di una complementarità e interdipendenza di tutti i diritti (Final provisions, art. 26), peraltro, si può parlare dell’«accesso a un’alimentazione e a un approvvigionamento d’acqua adeguati» come del fondamento stesso di ogni altro possibile diritto, anche di quello alla salute, dal momento che spesso la vulnerabilità e l’esposizione a gravi patologie è dovuta proprio alla denutrizione.
La scelta di introdurre il problema della fame e della povertà nel campo della bioetica potrebbe apparire a prima vista impropria, oltre a diluire ulteriormente i confini di una disciplina che – anche a motivo di un’agenda già abbastanza fitta – fa ancora fatica a dotarsi di un’identità epistemologica. A uno sguardo più attento, tuttavia, la vocazione interdisciplinare della bioetica e la sua stessa nascita storica, all’inizio degli anni Settanta, mostrano un significativo legame con alcune tematiche di portata globale che trovano nel discorso sulla giustizia distributiva e sui diritti umani un interlocutore privilegiato.
Dal punto di vista storico, la bioetica nasce in un contesto, come quello nordamericano dei primi anni Settanta, fortemente sensibile alle questioni legate alla rivendicazione sociale dei diritti delle minoranze oppresse e discriminate. In quel periodo, come si può leggere in qualunque manuale introduttivo di storia della bioetica, vengono alla luce alcuni clamorosi casi di sperimentazioni su pazienti spesso ignari, fra cui anziani, bambini e braccianti di colore, utilizzati come cavie umane a motivo della loro vulnerabilità psichica, sociale ed economica. Il problema non è scomparso, viste le odierne denunce contro il traffico di organi e contro l’uso dei paesi poveri come bacini di raccolta di soggetti umani per esperimenti clinici. Oltre a queste, altre contingenze storiche hanno contribuito a creare una certa aria di famiglia fra la nascente disciplina e le questioni di giustizia, che nello stesso periodo, com’è noto, trovavano un luogo di fine elaborazione teorica nell’opera di John Rawls. Non è senza importanza ricordare, per esempio, che prima ancora che venisse coniato il neologismo bioethics, il primo comitato etico ospedaliero della storia, istituito a Seattle nel 1967, si occupò di problemi di giustizia distributiva in regime di scarsità di risorse sanitarie. Quelli che oggi alcuni chiamano «diritti distributivi» (A. Buchanan), avrebbero dunque già da tempo incrociato i basic rights nel campo dell’assistenza medica e dei problemi di bioetica.
Se poi si analizza puntualmente la genesi della nuova disciplina, si può dire che la bioetica è nata portando con sé un’intrinseca tensione verso la globalità, tensione che si è andata perdendo nel tempo e che ora sta riprendendo prepotentemente quota, come dimostra anche la già citata Dichiarazione dell’Unesco. E, in effetti, l’inventore del neologismo Bioethics, il cancerologo statunitense van Rennslear Potter, concepì sin dall’inizio la nuova disciplina non soltanto come una riflessione su determinate e circoscritte pratiche bio-mediche quali l’aborto, la fecondazione assistita, l’eutanasia ecc., ma anche, e soprattutto, come una riflessione di più ampio respiro sui rapporti fra ambiente naturale, tecnologia e qualità della vita. Non a caso fu lo stesso Potter a parlare di Global Bioethics, dipingendo la bioetica come un ponte che, su larga scala, cerca di rimettere in dialogo la scienza e la tecnica con l’etica, nella consapevolezza che soltanto così si sarebbe potuto scongiurare un uso distorto e irresponsabile delle tecnologie nel campo della vita e della salute. Anche l’altro grande pioniere della bioetica, André Hellegers, il fondatore del Kennedy Institute, intese la bioetica come una disciplina di respiro globale, mostrandosi fortemente sensibile a questioni di carattere demografico e di salute a livello internazionale, oltre a contestare, a più riprese, le politiche di sterilizzazione nei Paesi poveri che non fossero unite a politiche orientate al loro sviluppo socio-economico e culturale.
Se può essere storicamente giustificato, il legame fra povertà globale, bioetica e diritti umani appare forse più problematico dal punto di vista concettuale. La bioetica nasce quando ci si rende conto che eventi come la vita e la morte, un tempo affidati esclusivamente alla natura, cadono, per il tramite della scienza medica, sotto il controllo e la responsabilità dell’uomo. L’aborto, la contraccezione e la fecondazione assistita per il nascere, l’eutanasia, l’accanimento terapeutico e la sospensione delle cure per il morire, sono due degli esempi più ricorrenti. Anche la vita umana minacciata dalla mancanza di cibo, acqua, riparo e cure mediche rientra, in linea di principio, dentro la bioetica, nella misura in cui è oggetto della nostra responsabilità. In un mondo fortemente globalizzato, in cui vengono meno distanze e confini, colui che era lontano e non suscitava problemi diventa “prossimo”. Nascono problemi che prima non erano nemmeno lontanamente immaginabili. Internet ha accorciato le distanze e ha fatto entrare a casa nostra i volti dei bambini denutriti. La morte per fame di persone lontane e invisibili, che prima era destino o fatto immodificabile, oggi ricade nell’ambito delle nostre scelte e delle nostre responsabilità: con un “clic” si può salvare la vita di un bambino. Chi si batte per il riconoscimento del diritto alla vita di embrioni umani, feti e pazienti in stato vegetativo non può rimanere indifferente a questo problema. La bioetica non ci invita infatti solo a un “esame di coscienza” ma anche a un esame di coerenza. Un autore come Peter Singer, per esempio, denuncia proprio tutti coloro che si battono per il diritto alla vita di feti e malati dimenticando i poveri dell’Africa sub-sahariana e del sud asiatico. Ma anche chi, nei paesi benestanti, si batte per il diritto di poter rifiutare terapie salvavita ampiamente disponibili, dovrebbe esaminare la propria coerenza e valutare se spende lo stesso impegno per il diritto a ottenerle, quelle stesse terapie, in contesti in cui invece esse scarseggiano. Chi si batte contro l’accanimento terapeutico, insomma, deve sapersi battere anche contro l’abbandono terapeutico.
Il discorso sui diritti umani, da questo punto di vista, restituisce alla bioetica la sua originaria vocazione globale, inducendola a preoccuparsi non soltanto di tutte le vite umane, ma anche di tutta la vita umana: dal momento della nascita a quello della morte, dunque, e non soltanto nel momento della nascita e in quello della morte. In quest’ottica, che è bioetica quotidiana e non di frontiera, sacralità e qualità si ritrovano alleate. E invece, limitandosi a restringere il campo, per esempio, sul “fine vita”, la bioetica finisce in un cortocircuito che proprio una maggiore attenzione ai diritti umani consente di denunciare: nell’occidente tecnologicamente avanzato beni come l’alimentazione e l’assistenza sanitaria sono divenuti talmente abbondanti, da aver ormai generato una lista di corrispondenti diritti “difensivi”, il cui scopo, dunque, non è più quello di ottenere la loro garanzia, ma il loro rifiuto. La bioetica si misura in occidente con problemi di sazietà. I beni abitualmente connessi ai diritti socio-economici, come l’alimentazione e l’assistenza sanitaria, diventano qui l’oggetto di un diritto di libertà, fondato dunque non su prestazioni positive da parte della società e dello stato, ma sulla loro non-interferenza. Questa peculiare dinamica costringe a ripensare la tradizionale struttura dei rispettivi diritti, avendo conseguenze non solo sui “nuovi” diritti di libertà, ma anche su quelli sociali: i doveri negativi di non-interferenza da parte dello stato e della società per assicurare, nei paesi benestanti, i diritti di libertà nel campo della medicina di sussistenza, sembrano mostrare minore cogenza se confrontati con quelli positivi di promozione del minimo vitale per le popolazioni povere del pianeta. Si potrebbe anzi dire, come fanno, pur a diverso titolo, autori come Martha Nussbaum, Singer e Thomas Pogge, che questi ultimi doveri non siano affatto positivi, godendo, al contrario, della forza e universalità di cui, rispetto ai doveri positivi, tradizionalmente godono i doveri negativi.
La pertinenza “bioetica” del problema della povertà e della fame comincia a questo punto a risultare più chiara: se la bio-etica è un’etica della vita in condizioni sociali caratterizzate da un’ampia diffusione della tecnologia medica, allora ricadrà nel suo specifico ambito di competenza anche la vita di chi rimane escluso dai benefici di questa tecnologia. Uno sguardo critico sulle conquiste della tecnologia nel campo della vita e della salute – sguardo con cui, solitamente, è identificata la bioetica – dovrebbe infatti implicare non soltanto una denuncia dei possibili abusi di questa tecnologia ma anche del suo mancato uso. E, in effetti, la bioetica non nasce solo per sorvegliare poliziescamente la tecnologia, denunciandone l’eventuale trasgressione di un limite morale. La bioetica può – e deve – anche, in positivo, incoraggiare la tecnologia al raggiungimento di un obiettivo morale. In caso contrario si rischia di promuovere una visione in cui tecnologia ed etica appaiono come dimensioni incompatibili dell’agire umano, di cui la bioetica sarebbe incaricata a comporre di volta in volta gli inevitabili conflitti. Piuttosto, una consapevolezza critica dello straordinario sviluppo tecnico e scientifico conosciuto dall’occidente, più che un atteggiamento di diffidenza pronto a denunciarne l’abuso, richiede uno sguardo che sappia collocarne l’uso in un contesto più ampio. Così facendo si scoprirà, forse, che il quadro in cui la scienza medica genera problemi perché fa troppo – vedi il caso dell’accanimento terapeutico – è un quadro parziale, e cioè quello delle società occidentali altamente tecnologizzate e benestanti. Una bioetica che si lasciasse dettare l’agenda esclusivamente da questo quadro non avrebbe una visione sufficientemente critica dei rapporti fra scienza medica e vita umana, recependo la modalità occidentale ed economicamente fiorente di questi rapporti non come una loro possibile e contingente versione, ma come la loro immutabile essenza. Ne deriva, seguendo l’ottica di una bioetica appunto “globale”, l’esigenza di integrare questo quadro con un altro e diverso quadro, quello della povertà grave, in cui, contrariamente al primo, la scienza medica genera problemi non perché fa troppo, ma perché fa troppo poco.
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