Con l’esortazione apostolica Amoris laetitia del 2016, frutto di due anni di discernimento sul tema della famiglia, la Chiesa cattolica ha inteso aggiornare la sua riflessione sull’amore coniugale all’interno delle grandi trasformazioni sociali e culturali in atto nel nostro tempo. Nel suo recente volume La promessa dell’amore. Accogliere e accompagnare le «coppie imperfette»: una lettura psicoanalitica dell’Amoris laetitia (Effatà Editrice 2023), lo psicoanalista Nicolò Terminio torna a riflettere sul recente testo magisteriale il quale risulta fondamentale per ripensare la pastorale familiare all’interno delle comunità credenti. Lo intervistiamo a partire dai contenuti del suo volume.
Nella sua rilettura psicoanalitica dell’Amoris laetitia,il passaggio dal giudizio all’accoglienza delle cosiddette “coppie imperfette” assume un ruolo centrale. Perché risulta fondamentale l’accoglienza?
L’accoglienza risulta fondamentale per superare una delle tentazioni principali dell’essere umano: quella di identificarsi in un modello predefinito che assomiglia a un’immagine allo specchio invece che allo slancio della propria vocazione. L’accoglienza ci mette quindi in una posizione di recettività verso l’alterità che si manifesta nell’incontro con gli altri, ma risulta fondamentale anche nel rapporto con noi stessi, con quel mistero che ci abita. Dare preminenza all’accoglienza vuol dire dunque essere sintonizzati con l’altro superando il desiderio narcisistico di ritrovare nell’altro un doppione del proprio io. Nel mio libro l’accoglienza è uno dei vettori psicologico-relazionali fondamentali per trasformare la tentazione del narcisismo umano in un’apertura capace di trasformare la nostra esistenza in modo generativo.
Nel suo volume lei sostiene che l’empatia più che immedesimazione dell’altro coincide con l’accettazione del mistero e dunque dell’alterità dell’altro. Questa declinazione dell’empatia quale valore assume per i vissuti familiari?
Secondo questa accezione l’empatia è una forma di sintonizzazione con l’altro in quanto alterità radicale, un altro cioè che non è assimilabile alle nostre aspettative o ai nostri fantasmi inconsci. L’empatia è la capacità di saper sostare di fronte all’altro quando l’altro è un estraneo e non corrisponde al personaggio che abita nella nostra immaginazione. Questa possibilità relazionale aperta dall’empatia è fondamentale nelle coppie e nelle trame delle famiglie, soprattutto quando si incrina la possibilità di comprendere l’altro attraverso le proprie proiezioni immaginarie, cioè quando l’altro disconferma tutto ciò che avevamo proiettato sulla base delle nostre aspettative.
In ciascun essere umano esiste il desiderio di corrispondere al desiderio dell’altro, ma esiste anche il desiderio di avere un proprio desiderio, e l’empatia si configura come la capacità di trovarsi di fronte alla singolarità del desiderio dell’altro senza cercare di addomesticarlo secondo le proprie aspettative. Paradossalmente è proprio il dono di questa libertà favorita dalla sintonizzazione empatica che consente a due desideri singolari di incontrarsi, di incontrarsi non in quanto sovrapponibili ma proprio perché radicalmente differenti. Nei legami familiari è dunque molto importante distinguere una forma di empatia basata sull’assimilazione dell’altro in base ai propri fantasmi (che dal mio punto di vista non è una vera empatia) da un’empatia che invece si fonda sulla possibilità di contemplare l’esistenza dell’altro come un mistero che continua a sorprenderci e ad attivarci verso una nuova scoperta.
Quanto la creatività, l’immaginazione e il desiderio sono importanti nelle relazioni familiari e, in genere, di coppia?
Per la psicoanalisi il desiderio è una esperienza analoga a quella della vocazione perché è una chiamata, una chiamata di cui non siamo padroni e che per quanto discernimento potremo compiere rimarrà sempre come un mistero. Per vivere il proprio desiderio è necessario essere creativi, cioè essere disposti a dare testimonianza della propria singolarità.
La scoperta della propria singolarità avviene grazie a un campo relazionale, non esiste un cammino di esplorazione e realizzazione della propria vocazione senza la compagnia degli altri. Senza la relazione con gli altri difficilmente possiamo incamminarci nella realizzazione creativa della nostra unicità. Allo stesso tempo va notato che è importante entrare in relazione con gli altri non per trovare una risonanza narcisistica che conferma il valore di sé, ma occorre pensare agli altri come dei compagni di viaggio nella ricerca della propria verità.
In questo modo possiamo comprendere che la dimensione relazionale si configura non come un rispecchiamento narcisistico, ma come l’istituzione di una dimensione terza che non coincide con due individualità in gioco o con la somma dei componenti del campo familiare. Nelle relazioni che sono abitate dall’esperienza del desiderio viene generata l’esperienza del Terzo, un Terzo che supera gli individui e gli fa scoprire che esiste qualcosa che li supera. È questa la dimensione del legame. Quindi la dimensione del desiderio è ciò che permette alla coppia e al campo familiare di esistere come superamento dell’ego e di configurarsi invece come esperienza di un gioco in cui si scopre chi si è per sé stessi e per gli altri.
A suo parere, la comunità ecclesiale dovrebbe ripensarsi attraverso un senso di appartenenza fondato sulla relazione e non sull’identificazione. Questa declinazione, quali percorsi progettuali potrebbe ispirare nella prospettiva pastorale?
Questa è una domanda davvero difficile perché non è possibile formulare una risposta generale. Da psicoanalista preferirei accostarmi a una singola realtà locale e studiarla insieme a chi vi appartiene per verificare quali sono i modelli identificatori che l’hanno caratterizzata e soprattutto la ragione per cui le identificazioni hanno preso quella forma. Le identificazioni sono importanti perché danno una rappresentazione alle aspirazioni dell’identità dei singoli soggetti e della comunità che li accoglie. Tuttavia bisogna considerare le identificazioni come dei vestiti prêt-à-porter e non come dei vestiti su misura. Le identificazioni sono come dei vestiti che non coincidono del tutto con la verità del soggetto, né corrispondono alla modalità più vera per realizzare lo slancio della vocazione. L’esperienza della vocazione di solito scompagina l’identificazione di un soggetto facendogli scorgere una verità che supera le credenze che aveva su sé stesso. E questa è una sfida che non riguarda soltanto il singolo, ma anche i gruppi e le comunità.
Va inoltre precisato che non bisogna confondere questa prospettiva con l’idea che qualsiasi forma di identificazione vada bene. La questione riguarda sempre quali sono i vincoli identificatori e relazionali che permettono un’apertura verso l’altro. Le identificazioni sono pericolose perché possono spingere verso la chiusura e la soluzione per evitare la chiusura non è abolire le identificazioni perché se si aboliscono le identificazioni si perdono anche i vincoli che ci permettono di rappresentarci. Sarebbe importante sostenere delle identificazioni insature e suscettibili di una trasformazione storico-sociale perché le identificazioni sono solo uno strumento per rappresentarci e per rivolgerci agli altri, ma non vanno confuse con l’essenza della nostra verità.
In estrema sintesi, direi che ciascuna comunità dovrebbe interrogarsi sul rapporto tra identificazione ed esperienza dell’amore sapendo che c’è una differenza e quindi chiedersi di volta in volta quali modelli identificatori proporre per aprirsi all’esperienza dell’amore. Avendo inoltre consapevolezza che l’esperienza dell’amore non è garantita dall’identificazione, semmai è l’esperienza dell’amore che consente di dare a quella forma di identificazione la legittimità di rivestire la nudità dell’essere del soggetto.
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