Dal cambio del pilota a quello della barca
Se i sondaggi non saranno clamorosamente smentiti, queste elezioni sembrano destinate a registrare la vittoria a valanga della coalizione di destra. Anche perché la scelta del PD, il maggiore partito di sinistra, di escludere ogni alleanza elettorale con i 5stelle, ha reso molto improbabile il successo della sinistra nei 221 collegi uninominali (147 alla Camera e 74 al Senato).
A questo punto, secondo le previsioni, non è impossibile che Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, uniti, raggiungano il traguardo di una maggioranza in Parlamento dei due terzi. Il che comporterebbe la possibilità, per loro, di cambiare, da soli, la Costituzione.
Non è un’ipotesi peregrina. Questo cambiamento rientra esplicitamente nel loro programma, in cui figura la proposta di un presidenzialismo che affiderebbe al popolo l’elezione diretta del capo dello Stato, accrescendo al tempo stesso enormemente i poteri di quest’ultimo e ridimensionando quelli del Parlamento. Che la si consideri o no con favore, si tratta di una novità che rende queste elezioni diverse da tutte quelle che l’hanno preceduta, sia nella Prima che nella Seconda Repubblica.
Perché qui non è in gioco soltanto la maggioranza politica che governerà nei prossimi cinque anni e che, per la normale dialettica democratica, prevista dalla nostra Costituzione, può essere vista con favore da alcuni e avversata da altri. Qui si tratta della stessa Carta costituzionale. A cambiare non sarebbero i piloti della barca, come finora è avvenuto nell’avvicendarsi dei governi di destra e di sinistra, ma la barca.
Urge una presa di coscienza
Questo significa che gli italiani il 25 settembre faranno una scelta che non ha precedenti, se non nelle elezioni del 1946, quando, dopo gli anni del fascismo e della guerra, votarono per eleggere i loro rappresentanti nell’Assemblea Costituente. Solo che allora erano consapevoli di stare scegliendo i partiti e le persone che avrebbero deciso non solo del loro futuro immediato, ma della forma definitiva che avrebbe assunto la loro vita politica. Un regime era caduto, in circostanze drammatiche, e si trattava di inventarsene un altro. Ai “padri costituenti” veniva esplicitamente affidato questo compito delicatissimo.
Oggi la maggior parte delle persone sembra invece convinta di stare partecipando a una normale tornata elettorale e di potersi affidare, come per il passato, a orientamenti più o meno estemporanei, dettati da motivazioni contingenti. Tutto sembra confermare questa impressione. Le solite polemiche tra i leader, i soliti siparietti nei talk show televisivi, le solite promesse elettorali, fatte apposta per illudere gli ingenui e per essere opportunamente ridimensionate o del tutto disattese dai vincitori, alla prova della cruda realtà, nella concreta gestione del potere. Tutto come sempre.
E invece no. Perché questa volta si profila la possibilità concreta che venga cambiata la Costituzione. Il nuovo Parlamento potrebbe assumersi il ruolo di una nuova Costituente e decidere di ridiscutere non solo il modo di giocare la partita, ma le stesse regole del gioco. È quanto del resto il centro-destra, nel suo programma, promette di fare, in caso di vittoria: «Elezione diretta del Presidente della Repubblica» è uno dei quindici punti di questo programma. Se avrà, come dai sondaggi appare possibile, i due terzi dei voti, potrà realizzarlo. E presumibilmente lo farà, visto che a caldeggiare questa proposta è soprattutto Giorgia Meloni, la leader più “forte” dello schieramento di destra.
Opposte prospettive
Naturalmente si può essere disposti, secondo le proprie propensioni politiche, a sottolineare più le luci oppure le ombre di questa prospettiva. Si potrà guardare ad essa con la speranza di un profondo rinnovamento della vita politica, oppure con il timore di un suo imbarbarimento. L’importante è essere coscienti che, se si realizzasse, costituirebbe una cesura rispetto a cui quella tra Prima e Seconda Repubblica risulterebbe irrilevante.
La nostra attuale Costituzione è nata dalla catastrofe di un regime dittatoriale che aveva affidato il potere alle mani di un uomo solo. Essa, perciò, è tutta incentrata sull’esigenza di evitare un simile esito, distribuendo e bilanciando i ruoli in modo che nessuno abbia da solo una funzione decisionale assoluta.
C’è un capo dello Stato, eletto dal Parlamento, ma è solo il garante della vita democratica e non può sostituirsi né al potere legislativo, affidato alle Camere, né a quello esecutivo, esercitato dal governo. A sua volta il Parlamento, oltre ad eleggere il presidente della Repubblica, ha il compito decisivo di fare le leggi e di votare la fiducia al governo, che quindi ne dipende, ma non può governare direttamente. Così come il governo non può prescindere dal voto di fiducia del Parlamento e non può fare leggi, ma solo decreti che devono essere comunque approvati dalle Camere.
Inutile dire che questo sistema di pesi e contrappesi ha dei difetti di cui è testimone la storia politica della Repubblica. Il pluralismo dei poteri risulta a volte paralizzante. E la dipendenza dei governi dal Parlamento li espone a una continua instabilità. Una persona sola al comando può fare a meno di dipendere dagli altri soggetti coinvolti nella gestione dell’apparato dello Stato. Con l’elezione diretta del presidente e con il conseguente rafforzamento del suo potere, molte lentezze, molte fragilità del sistema parlamentare potrebbero così essere definitivamente evitate.
Nel programma del centro-destra non si specifica se il presidenzialismo proposto sia quello di tipo americano o di tipo francese. Nel primo caso, il presidente eletto dal popolo sostituisce direttamente il primo ministro; nel secondo, lo nomina, e può anche destituirlo. In entrambi i casi, è lui che governa.
Essendo eletto dal popolo, non può essere delegittimato dal Parlamento. Quest’ultimo continua ad avere un certo controllo sul suo operato – come avviene negli Stati Uniti, dove alcune scelte presidenziali devono passare attraverso l’approvazione del Congresso – , ma in definitiva è il presidente il soggetto principale dello scenario politico. Ovviamente con i problemi e i rischi che questo accentramento del potere comporta per le libertà civili e politiche.
Tuttavia, non si può assolutamente identificare il presidenzialismo con il fascismo. Abbiamo appena citato due nazioni che adottano il primo senza essere sospette di cadere nel secondo. Certo, i critici fanno notare che la storia italiana non è quella degli Stati Uniti, né quella della Francia, che non hanno conosciuto il fascismo, da cui invece la nostra storia unitaria è stata profondamente segnata per ben vent’anni.
Indizio evidente della presenza, in quei Paesi, di anticorpi culturali e politici che in Italia non c’erano e forse non ci sono neppure oggi. Dove il problema non è se sia possibile una riedizione del fenomeno politico storicamente definito come fascismo – cosa assai improbabile (la storia non si ripete mai identica) – , ma se non si corra il rischio, assumendo una struttura costituzionale che vede una persona sola al comando, di favorire l’insorgenza di derive autoritarie analoghe ad esso, come per esempio quelle che si sono affermate in Polonia e in Ungheria.
La dichiarata simpatia della Meloni per il regime di Orbán non è, da questo punto di vista, rassicurante. Per contro, però, ci può essere chi, pur non essendo fascista, preferisce correre il rischio dell’autoritarismo e del sovranismo che rimanere in balìa del gioco dei partiti nel costruire e disfare maggioranze parlamentari sempre esposte a tutti i ricatti e a tutti i ripensamenti (come dimostra con particolare evidenza la triste storia di questa ultima legislatura).
Una perplessità
Non è questa la sede per dire quale dei due sistemi sia preferibile. L’importante è che, andando a votare il 25 settembre, ci si renda conto di stare facendo una scelta radicale e probabilmente irreversibile tra i due. Andiamo forse verso una nuova Costituente.
Resta la domanda se il personale politico che dovrebbe procedere all’elaborazione di questa nuova forma costituzionale sia all’altezza di quello che, tra il 1946 e il 1948, ha scritto la nostra Carta costituzionale. Quelli erano uomini e donne che si erano forgiati nella lotta contro la dittatura, nelle persecuzioni, nell’esilio, a volte nella prigionia.
Molti erano persone di grande cultura. La loro statura morale e civile era la garanzia della loro affidabilità politica. Possiamo dire la stessa cosa dei nostri futuri padri costituenti? Certo, bisogna tenere conto del cambiamento dei tempi e del costume.
Tuttavia, senza voler offendere nessuno, bisogna riconoscere che la storia personale dei principali leader della coalizione destinata alla vittoria non sembra contrassegnata dallo stesso spessore etico e culturale. Ma, se gli italiani li stanno chiamando a governare, vuol dire che si riconoscono in loro. È la regola della democrazia.
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