Non pochi cattolici pensano – e non è una novità di oggi – che la naturale e inevitabile traduzione politica degli ideali cristiani consista nell’appoggiare movimenti tradizionalisti, conservatori e reazionari di vario tipo. Oggi questa “convergenza” prende la forma (forse ancora più preoccupante che in passato) dell’adesione – malgrado i proclami del Papa – al programma politico delle forze identitarie, reazionarie e sovraniste che spopolano in Italia e un po’ ovunque in Europa. Questo piccolo saggio vuole analizzare criticamente quanto effettivamente tradizionalismo identitario e cristianesimo abbiano in comune. Oltre a ciò, mi propongo di fornire qualche spunto per chiedersi se, indipendentemente dalla fede religiosa, il tradizionalismo identitario possa davvero essere una soluzione ai mali che – ne convengo – hanno reso la nostra società progressivamente più debole e frammentata, meno attenta alla solidarietà e alla tutela delle persone, nel corso degli ultimi decenni.
Viviamo in tempi di grande insicurezza e isolamento. Già dalla fine degli anni ’60 quelle che apparivano come punti saldi, “naturali” – la struttura della famiglia, l’ordine del ruolo dei sessi, la certezza di trovare un posto nella ruota dell’economia e della società, la protezione garantita dall’essere parte di una comunità locale e nazionale coesa – sono stati scossi fin nelle fondamenta.
In particolare è nel corso degli ultimi vent’ anni che – proprio mentre dal punto di vista dei diritti civili e delle politiche dell’identità si andavano precisando le rivendicazioni femministe e dei movimenti LGBT – dal punto di vista economico e sociale si è compiuta una quasi totale capitolazione delle protezioni e dei diritti sociali, finanche del concetto stesso di “bene comune”. Ciò si è tradotto in sempre minori garanzie e tutele per il singolo che, per varie circostanze, finiva a trovarsi al di fuori degli ingranaggi del sistema produttivo e del mercato del lavoro, o ridotto a vivere ai margini della società, vuoi dal punto di vista economico (lavoro in nero, lavoro sottopagato, lavoro “flessibile” e perennemente a tempo determinato) vuoi dal punto di vista dei legami sociali. Isolamento e insicurezza, come dicevo. E l’isolamento e l’insicurezza, com’è inevitabile e legittimo, non possono che provocare smarrimento, impotenza cronica, paura e rabbia. È questo – questo smarrimento, questo bisogno di saldezza e identità, questa paura e questa rabbia – che fa da carburante ai tanti movimenti di “reazione” e a carattere identitario che stanno cambiando, oggi, la faccia dell’Europa e dell’occidente intero.
Questi movimenti promettono ai loro adepti protezione, certezze incrollabili, identità chiare e nette. E nella stragrande maggioranza le certezze che vengono offerte non hanno la forma di utopie, non costituiscono aspirazioni ideali, costruzioni o progetti politici avveniristici. Si pretende piuttosto di trovare la cura alla fluidità dell’oggi nel sangue, nella tradizione, nella storia. In altre parole, nel passato. Oggi si è fatto del “passatismo”, della ricerca spasmodica di un’identità forte e univoca frutto di salde radici storiche, un’arma politica vincente. Si tratta della nostalgia per un passato in cui tutti stavamo meglio, percepito come libero dalle incertezze di oggi. Un periodo in cui, si crede oggi, potevamo riconoscerci in una sola identità nazionale, avevamo un modello di famiglia saldo, eravamo dispensati dal confronto/scontro con tradizioni e culture altre rispetto alla nostra. Le forze “passatiste” di oggi si basano su due pilastri. Un principio guida: riaffermazione di un’identità forte (quale?) ed enfasi sulla sicurezza (a che prezzo?). Ed un nemico: i diversi, specialmente quando essi sono ‘deboli’ e marginali (ma, a onor del vero, anche quando essi sono ‘diversi’ dalla “gente comune” perché più colti o più potenti: si pensi all’anti-elitismo e all’anti-intellettualismo).
Una delle cose più inquietanti di questo clima culturale è (come del resto testimoniato l’occasione da cui ha origine questo articolo) la leva che esso ha nei confronti di buona parte della società cristiana, non solo in Italia ma all’estero. Il bisogno di riaffermare un’identità salda, monolitica, rassicurante da rintracciare nel nostro passato recente è ciò che motiva le scelte ed il dissenso di una frangia importante della cristianità occidentale. E nella ricerca di tale identità l’attaccamento alla Tradizione (la tradizione con la T maiuscola, quella teologica-dottrinale) si salda, per qualche motivo, con l’attaccamento alle tradizioni umane. Come se esse siano state le espressioni, oggi in crisi e perciò da difendere o recuperare, dei principi evangelici nella loro purezza. La triade “Dio, Patria, Famiglia” risorge: la patria, la famiglia, la nazione sono, infatti, i principali strumenti di costruzione di identità che oggi il “passatismo” tradizionalista e identitario ha da offrire, ciò che viene usato per dare l’idea di un radicamento, di una stabilità, capace di esorcizzare la percezione di essere atomi isolati, vaganti in balia delle forze arbitrarie di un cosmo ostile.
Il clima culturale che costituisce lo sfondo su cui costruiscono le loro azioni politiche i sovranisti di destra, e la loro strisciante “fronda” teologica i critici occidentali di papa Francesco, è essenzialmente questo e muove dai medesimi presupposti sia per ciò che riguarda la politica che per ciò che riguarda la religione. Non a caso esponenti di spicco della Lega e il cardinale Burke si incontrano e pensano di legittimarsi a vicenda. Non a caso Costanza Miriano ha, recentemente, manifestata la sua preferenza per lo stesso partito politico in quanto esso costituirebbe la migliore difesa degli ideali che le stanno a cuore; e non a caso pare che buona parte dell’elettorato cristiano appoggi le scelte del nostro attuale ministro dell’Interno.
Tuttavia questo apparente idillio dovrebbe essere quantomeno messo in discussione dall’analisi di alcune verità semplici, tanto sul piano religioso quanto sul piano sociale.
Per quanto riguarda il piano religioso: Gesù di Nazareth è tra le figure più critiche verso un’identità fondata sul primato delle “radici” umane, dei “legami di sangue”, tanto familiari quanto etnici. Se c’è una figura religiosa che si contrappone nettamente al familismo, al primato dell’etnia e al valore dell’identità nazionale, questa è Gesù Cristo. Il senso dell’operare del Maestro di Galilea è anzi essenzialmente quello di scegliere singole persone, chiamarle fuori dal loro contesto “naturale”, mandarle verso un progetto più grande e trasversale rispetto a qualsiasi “piccola comunità” di sangue. Verso una comunità che può essere – che deve/dovrà essere –, al limite, coincidente con l’umanità intera. Non conta nulla essere figli di Abramo, fare parte di un popolo e di una discendenza non ha alcun valore: “Dio può far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre”.
Il cristiano è universalista per vocazione. La legittimità della diffusa adesione dei cristiani conservatori alle odierne forme di nazionalismo identitario è, dunque, perlomeno molto dubbia.
Ed un cristiano – tradizionalista o no – dovrebbe pensarci due volte anche prima di prendere come punto di riferimento la cosiddetta “famiglia tradizionale”. Perché le sue radici sono da trovare, più che nei principi evangelici di amore caritatevole, esclusività del legame, dono di sé, nelle necessità economiche e sociali della classe borghese. Essa porta con sé tutte le disuguaglianze e le ingiustizie tipiche della società borghese novecentesca. Illuminante è, a questo riguardo, questo articolo dell’Huffington Post. Pur con tutte le sue parzialità, riesce bene a trasmettere un’idea a mio avviso fondamentale: le strutture sociali che rimpiangiamo non rispecchiano in modo particolare i principi cristiani che dovrebbero esserci cari. In altre parole, se vogliamo una istituzione familiare che sia cristianamente ispirata, dobbiamo lavorare a costruirne una. Di tutti i principi possibili, la famiglia tradizionale ne prediligeva essenzialmente uno: la stabilità. Non la carità, non il dono reciproco, non il prendersi cura della libertà dell’altra e dell’altro. Rispecchiava la necessità di un nucleo stabile per la gestione economica e la trasmissione del patrimonio, almeno fino all’avvento del divorzio. Dopo il quale si è imposto un modello di fatto tutto consumistico – ma futilmente “romantico” sul piano delle apparenze e dei richiami culturali – dell’amore, che naturalmente è imploso. Che giustamente è imploso. Infatti nel primato dell’elemento economico dapprima (nella stabilità familiare fondata sul “possesso” del capofamiglia e non sulla responsabilità reciproca), e nella concezione consumistica dell’amore in un secondo momento, si fondano precisamente quei meccanismi disgreganti che hanno portato alla crisi della famiglia attuale. Su questo si gioca la battaglia per la famiglia che verrà.
La battaglia per la famiglia che verrà, così intesa e depurata da un tradizionalismo cieco e sterile, può essere (deve essere) una battaglia trasversale, tanto dei cristiani quanto degli appartenenti ad altre religioni o a nessuna. Il valore squisitamente umano di ideali come la cura dell’altro (animata dalla carità per chi è cristiano), la responsabilità reciproca, la volontà generativa non può non essere visto da chiunque abbia a cuore una concezione umana e (autenticamente) progressista della società. Tale concezione della famiglia è lontanissima sia dalle aspirazioni di un certo, presunto progressismo del lassez-faire quanto da quelle del tradizionalismo conservatore, e non potrà non fondarsi – checché ne pensino i libertari – su una precisa concezione della natura umana e, di conseguenza, dei bisogni dell’uomo.
Alla luce di quanto è stato detto apparirà, spero, che l’attaccamento a forme di tradizionalismo conservatore è forse motivato più da ragioni di tipo psicologico (bisogno di stabilità sociale, attaccamento all’ordine costituito, paura di una situazione percepita – a ragione – come fluida e incerta) che da un riferimento puntuale a criteri propri del Vangelo. Questo vale sia nel caso della famiglia, che a maggior ragione nel caso dei nuovi nazionalismi.
Ma lasciando da parte la questione della sua lontananza dalla prospettiva evangelica, come valutare il ritorno del “bisogno di patria” da un punto di vista squisitamente sociale e laico? Innanzitutto bisogna intendersi su cosa si intenda con identità nazionale.
Di sicuro essa non coincide, per chi ne fa un vessillo politico, con la cittadinanza di fatto. Esemplare in tal senso è il cortocircuito che ha generato a Palermo, la mia città, la recente decisione di assegnare alcune ville a famiglie rom. Decisione contro cui parte del popolo palermitano, e delle fazioni politiche di destra, si sono schierate al grido di “prima gli italiani”. Senonché quelle famiglie rom posseggono la cittadinanza italiana e sono, dunque, tanto italiani quanto i manifestanti, almeno agli occhi della legge. Ed esemplare anche l’uscita del Ministro dell’Interno circa i rom italiani, quelli che “purtroppo ci dobbiamo tenere”. Quando si dice “prima gli italiani” si intende, in fondo, che il primato va non tanto a chi ha la cittadinanza, ma a chi appartiene ad un mitico “sangue italiano”, come se gli italiani costituissero un’etnia monolitica. Non è percepito come italiano chi, per ragioni spesso vaghe, risulta essere un “diverso”, non appartenente al nostro ceppo di tradizioni, di sangue o di lingua.
Ma sarebbe vano cercare una etnia italiana. La nostra storia, più ancora di quella delle altre nazioni europee, è una storia di influenze molteplici. Distinguere indigeni ed esterni è per noi, di fatto, futile. Un esempio su tutti: la presenza araba e musulmana, che oggi sono visti come gli Stranieri per eccellenza, vanta nella nostra penisola – e specialmente in Sicilia – una storia millenaria, che ha caratterizzato anche profondamente il nostro territorio. Le tradizioni arabe e musulmane sono sempre state di minoranza, ma sono più antiche e radicate di molte delle tradizioni locali che ci vengono presentate come frutto purissimo del “sangue” e della “storia” italiana.
Quando si parla di identità nazionale, insomma, non ci si rifà mai a qualcosa di univoco e naturale. Si compie sempre una scelta. Non c’è un solo passato nazionale. Ce ne sono tanti. Guardando alle nostre spalle, dunque, non troveremo una risposta univoca su chi siamo. L’identità è sempre frutto di una scelta tra possibilità date. E quella per cui gli identitarismi di destra hanno optato – la ricerca di una purezza, la chiusura verso le influenze esterne, il ripiegamento verso noi stessi – non è né l’unica né la migliore possibile concezione della comunità.
La scelta dell’identitarismo nazionale, oltre a non avere basi solide (non c’è una nazione dai confini netti e indelebili dal punto di vista delle tradizioni o del sangue) è pericolosissima anche dal punto di vista etico. Il culto della nazione – è stato spesso sottolineato – sarebbe un’alternativa “laica” al culto di Dio, che spesso viene anzi strumentalizzato per la costruzione di un senso di identità comune. Solo che, a differenza delle religioni tradizionali, l’adesione alla nazione non è suscettibile di valutazioni etiche. Non si aderisce alla nazione, intesa in senso identitarista, per i suoi valori o per il progetto di società che porta avanti. Si aderisce alla nazione perché è la mia, indipendentemente dalla giustezza o meno delle politiche che vengono applicate nel suo nome (right or wrong, my Country).
Il nazionalismo non è né può essere una cura ai nostri mali neanche se lo si intende contrapposto all’ inter- o sovranazionalismo dell’Unione Europea di oggi (e quindi come la variante sovranista del nazionalismo). Sono giustissime alcune delle critiche che il sovranismo, specie di sinistra, muove a queste entità sovranazionali, accusate di essere entità più tecnocratiche che democratiche, al servizio di una concezione meramente economica della globalizzazione, compromesse con la finanza e mai abbastanza attente (per usare un eufemismo) ai diritti dei lavoratori e delle fasce più deboli, alla difesa di quelle risorse – materiali e non – che andrebbero tutelati come beni comuni dalla tendenza alla svendita selvaggia, alle rivendicazioni popolari in tema di welfare e di democratizzazione delle istituzioni sovranazionali stesse. Tutti valori prioritari in una società davvero umana, e oggi quasi annichiliti (beh, è la fine della Storia che tanti liberisti hanno vagheggiato, no?).
Non è certo di questo tipo di istituzioni sovranazionali che abbiamo bisogno. La cura non può essere però un ritorno alle “piccole patrie”: precisamente i problemi che il sovranismo mette in luce (la concorrenza “sleale” da parte di paesi senza diritti sociali in un mondo globalizzato, l’inquinamento crescente e l’esaurimento delle risorse, i flussi migratori) non possono per definizione essere risolti nel ristretto ambito delle singole nazioni. La battaglia per un mondo autenticamente democratico e solidale, se questo è il nostro fine comune, non può che passare per il piano e le istituzioni internazionali.
Né chi eravamo né il presunto (ma inesistente) “sangue comune” né le tradizioni semplicemente umane che ci hanno condotto fin qui possono essere la cura ai mali di questo tempo. Precisamente perché è proprio nelle nostre tradizioni e nelle istituzioni di ieri – o per meglio dire nelle loro falle e nei loro vizi strutturali – che sta la causa dei problemi di oggi. Né tantomeno nella rinuncia alla dimensione comunitaria e nell’accettare quel “futuro” propostoci da un certo libertarismo, trasversale tanto al centro destra che al centro sinistra più recente, quel futuro che in realtà non è altro che l’“eterno presente” del neoliberismo e dell’ideologia ad esso connaturata, quella di un’esaltazione unilaterale del valore dell’“autonomia” individuale non misurata da alcun criterio valido intersoggettivamente. Questo futuro-presente non può che tradursi, come si è visto, nell’autonomia assoluta ed amorale di alcuni (i privilegiati ed i “forti” dal punto di vista economico-sociale) a tutto danno delle fasce sociali più deboli. Ai membri delle quali è oggi di fatto sempre più spesso negata la possibilità di sentirsi protagonisti della vita comunitaria, capaci di incidere responsabilmente in essa tramite il proprio lavoro e tramite una partecipazione politica autentica, al di là del settarismo oligarchico di alcuni e del populismo fallace e in fondo autoritario di altri. Cosa che richiederebbe in primo luogo un ritorno a forme di pedagogia critica da parte dell’istruzione pubblica, degli enti a carattere culturale, dei “corpi intermedi” – insomma, energie impiegate a rafforzare un’opinione pubblica consapevole e critica, piuttosto che ad assecondare (alimentandolo) semplicemente ciò che è monetizzabile nell’immediato (in termini economici o di tornaconto elettorale).
In assenza di tutto ciò, la libertà che oggi ci rimane (soprattutto ai soggetti delle fasce più deboli ed oppresse) è, invece, meramente quella dell’individuo consumatore.
È necessario, insomma, un ritorno della comunità. Questa è l’istanza legittima delle correnti sovraniste e nazionaliste di oggi. Ma tale comunità non può essere identitaria. Nessuna delle forze politiche in campo ad oggi ha mai osato mettere in discussione il principio del primato di chi è nato qui rispetto a chi arriva o a chi vuole diventare parte della nazione. Io penso sia necessario avere il coraggio di farlo. E non per distruggere l’idea di comunità o di nazione, ma per fondarla su basi diverse. Della nazione deve avere il diritto di far parte a pieno titolo chiunque, concretamente, voglia partecipare alla costruzione e alla tutela della comunità, chiunque si senta responsabile del “bene comune” e dimostri di volersene prendere cura, di diventare un membro costruttivo della società e ne apprezzi i valori fondativi. Una comunità può essere davvero democratica solo a questa condizione – a condizione di essere una sintesi superiore tra diversi in virtù di principi condivisi, e non un’unità monolitica, come i nazionalismi identitari invece vorrebbero (si veda quanto è successo di recente nello Stato d’Israele, che oggi si identifica con solo una parte dei suoi abitanti di fatto). La comunità deve invece essere fondata su dei valori, ma aperta: aperta alle differenti minoranze e tradizioni che la abitano, e aperta sul fronte esterno al dialogo e alla ricerca di regole condivise con le altre comunità nazionali. Solo regole transnazionali attente ai diritti sociali e civili, e che riconoscano nella Terra e nelle potenzialità delle persone dei beni comuni da tutelare, possono portarci al futuro che meritiamo. Per giungere al quale dovremo imparare a guardare di nuovo con aspettativa e speranza all’infinito delle possibilità umane, e non a tenere gli occhi fissi sul terreno fangoso e accidentato da cui proveniamo.
Lascia un commento