di Giuseppe Savagnone
Forse la maggior parte di noi, davanti al can can che si è scatenato in questi giorni sul ddl Cirinnà e sul Family day, ha provato un senso profondo di stanchezza e ha avuto la tentazione di spegnere l’audio, se non altro per motivi di igiene mentale.
Questa tentazione si fa ancora più forte quando scopriamo che in Italia «le coppie composte da un uomo e da una donna sono 13 milioni e 990 mila. Il 99,95 per cento. Lo dice il censimento nazionale dell’Istituto nazionale di statistica. Le coppie dello stesso sesso che nel 2011 si autodichiarano famiglia sono, invece, soltanto 7.513 (…). Seguendo le risposte del 2011, si scopre che su 7.513 coppie autodichiaratesi “dello stesso sesso”, solo 529 avevano figli. Rappresentano – le coppie gay con figli – lo 0,0005 per cento delle coppie italiane» (C. Zunino, I numeri delle famiglie gay. Sono meno di 8mila e solo in 500 hanno figli”, in «Repubblica» del 1 febbraio 2016).
Valeva la pena di mobilitarsi in trecentomila per una minaccia lillipuziana? E, sul fronte opposto, di rivendicare con toni così drammatici un diritto che riguarda in realtà poche migliaia di persone, in un momento in cui ci sono milioni di famiglie in gravissime difficoltà di ogni tipo?
Una prima risposta a questi comprensibili interrogativi potrebbe essere che l’importanza di un problema non si misura solo in termini quantitativi. Qui è in gioco un principio giuridico. E’ in nome di esso che i movimenti LGBT si battono, chiamando in causa gli artt. 2 e 3 della Costituzione, che sanciscono l’uguaglianza dei diritti di tutti i cittadini. Così come è in nome di esso che, all’opposto, altri – appellandosi all’art. 29 della stessa Costituzione, dove si consacra il valore della famiglia – hanno manifestato nel Family day.
Il vero nodo, però, non è di ordine giuridico, ma riguarda la visione dell’essere umano e della società. E’ in base ad essa che dall’una e dall’altra parte si interpreta, in modi opposti, la nostra Carta costituzionale. E la posta in gioco di questa battaglia non è il ddl Cirinnà in quanto tale (considerato da entrambe le parti come un compromesso, destinato ad aprire la via al vero e proprio matrimonio omosessuale), ma il prevalere, nella nostra cultura, dell’una o dell’altra prospettiva.
Alla base della richiesta che l’unione tra persone omosessuali venga equiparata pienamente al matrimonio c’è la convinzione (non giuridica, ma filosofica) che le differenze biologiche – il sesso maschile e quello femminile – non siano decisive per definire l’identità sessuale di una persona, come in passato si è creduto. L’eterosessualità perciò – secondo questa visione – non può e non deve essere considerata eticamente e giuridicamente il criterio normativo dei comportamenti sessuali e quindi di quei rapporti (di coppia, di genitorialità) che ne derivano. Il fatto che per secoli il modello di famiglia eterosessuale abbia dominato come l’unico “naturale” sarebbe solo il frutto di una costruzione sociale e culturale di cui dobbiamo finalmente liberarci. Quello che conta non sarebbe la realtà biologica dei soggetti, ma i loro sentimenti. E poiché, come scrive Michela Marzano, «l’amore, in realtà, non ha né sesso né genere», non si vede perché discriminare in base al sesso e al genere la possibilità di sposarsi e di avere dei figli da amare.
È questo, noto di passaggio, un punto fondamentale delle gender theories, elaborate, in forme diverse, dalle studiose femministe della seconda metà del secolo scorso. Oggi è frequente che se ne neghi la stessa esistenza, riducendo il conflitto in corso al semplice riconoscimento o meno dell’eguaglianza dei diritti. Ma così si elude (e forse si nasconde) la vera questione. Perché, se invece dell’assunto (filosofico) della irrilevanza della differenza sessuale, si accettasse quello opposto, come finora si è fatto, l’uguaglianza tra cittadini non sarebbe per nulla violata regolando le coppie etero in modo diverso da quelle omo. Se l’essere maschi o femmine fosse considerato essenziale per l’identità personale e per la paternità o la maternità, la legge non eserciterebbe alcuna violenza tenendone conto e riconoscendo i diversi ruoli che ne derivano. Regolamentare diversamente situazioni diverse non è un’ingiustizia e l’ordinamento giuridico lo fa in moltissimi casi, senza per questo minacciare il principio di uguaglianza. Diventa ingiusto solo se si dimostra che questa diversità è il frutto di un pregiudizio culturale che non ha alcun fondamento nella realtà. Come, appunto, sostengono le gender theories.
Reciprocamente, alla base della difesa della peculiarità del matrimonio, contro la sua equiparazione all’unione tra persone omosessuali, c’è la convinzione (anch’essa filosofica, pur se con uno sfondo religioso) che le differenza biologiche, anatomiche e morfologiche tra maschi e femmine siano fondamentali per l’identità delle persone e debbano essere considerate normative – sul piano etico come su quello giuridico – dei comportamenti sessuali. Da qui l’idea che tali comportamenti siano “naturali” solo se corrispondono alle rispettive caratterizzazioni corporee e che, di conseguenza, l’amore tra persone dello stesso sesso, così come la genitorialità esercitata rispettivamente da due uomini o da due donne, siano “contro natura” e non riconoscibili da parte della comunità civile.
Anche questa tesi non può essere sostenuta solo appellandosi al concetto di famiglia sancito dalla Costituzione, che in base ad altri presupposti filosofici potrebbe essere interpretato diversamente. E neppure sembra decisivo il richiamo ai diritti dei figli, perché, se avessero ragione gli oppositori, l’identità sessuale non conterebbe per definire una buona genitorialità. Anche quelle arcobaleno si definiscono famiglie.
Qui è in gioco, insomma, non il conflitto tra due “diritti”, come molti credono, ma tra le due prospettive culturali che stanno dietro di essi. E la posta è altissima. Perché, se è vero – come affermano i movimenti LGBT – che la cultura dell’eterosessualità per secoli ha contribuito in modo determinante a configurare l’identità delle persone e della società, il suo eventuale superamento non potrà non avere conseguenze altrettanto decisive per il futuro, e non solo delle coppie gay (che, come si è visto, sono pochissime), ma di tutti, perché introdurrà inevitabilmente nuovi modi pensare, di sentire e di vivere che condizioneranno il nostro costume di vita (come ha fatto finora il primato dell’eterosessualità).
Ecco perché, anche ora che il ddl Cirinnà si avvia verso l’approvazione in Parlamento, vale la pena di continuare a discutere dei problemi che stanno dietro di esso. Perché, al di là del braccio di ferro politico tra i suoi sostenitori e i manifestanti del Family day, possiamo affrontare quello che sta accadendo ad occhi aperti, e non illudendoci di stare solo completando la conquista dei diritti.
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