Un commento alla “Lettera” di Giuseppe Savagnone
Caro Giuseppe,
la tua lettera merita un riscontro, non fosse altro che per la pacatezza dei toni e per l’apertura alla circolarità, inquinati come siamo dall’aggressività di parole autoreferenziali. Come insegnante inoltre mi preoccupa la ricaduta che le ambiguità e le contraddizioni del dibattito politico hanno nella percezione dei giovani.
Per non parlare della difficoltà educativa di offrire temi di riflessione su democrazia, diritti umani, inclusione, in un contesto in cui opinioni e scelte di governo fanno emergere un pensiero spesso in contraddizione con le linee guida dei percorsi didattico–educativi che lo stesso ministero dell’Istruzione (MIUR) ha maturato in decenni di cultura pedagogica e di politica dell’istruzione.
Gli argomenti della tua “lettera aperta” sono di quelli destinati a sedimentarsi nella storia, non sono faccenda di ordinaria cronaca. Ciò di cui dibattiamo incide sull’orientamento etico-politico che va assumendo la nostra realtà, dunque sulla vita presente e del prossimo futuro che determinerà quel cambio di paradigma al quale guardiamo per comprendere verso dove siamo diretti e quanto intenzionalmente o per necessità storica. I passaggi epocali investono generazioni, ma il percorso è fatto dai passi di ciascuno di noi. La storia siamo noi, si sa; ma forse non è chiaro che ciò equivale all’esercizio di quella “cittadinanza attiva” che impone a ciascuna e a ciascuno di noi il vaglio della responsabilità del proprio stile di pensiero e di azione.
Complessità della storia e delle dinamiche sociali.
La storia solo apparentemente procede per causalità lineari, in realtà i processi spazio-temporali determinati dall’agire di ogni singola persona e dall’ambiente in cui vive sono complessi, reticolari, non si possono comprendere se non in una chiave di interconnessione, globale appunto. Gli esperti in dinamiche socio-economiche hanno illustrato ampiamente la corrispondenza tra produttività e capacità umana di creare relazioni costruttive e virtuose sia tra le persone che con l’ecosistema. Potrebbe risultare interessante conoscere le “Raccomandazioni del Parlamento Europeo” in materia di istruzione, proprio sul nesso tra relazioni umane inclusive, apprendimento e sviluppo.
È ormai evidente che il progresso economico, sociale ed ambientale procede secondo un modello di interconnessioni tali per cui il rispetto dei diritti umani costituisce un fattore imprescindibile per la realizzazione di processi ecosostenibili. È il modello di interconnessioni causali che connota i sistemi complessi, che gli scienziati conoscono da più di un secolo, ma che non sembra ancora acquisito dalla gente comune come presupposto di “regole per dirigere la ragione”, che già Cartesio considerava indispensabile perché l’umanità potesse pervenire a condizioni di “felicità”, termine col quale all’epoca s’intendeva il progresso inteso come pace tra i popoli e tranquillità di vita.
L’educazione e la superficialità dell’opinione pubblica.
Da insegnante constato da tempo la gravità della inosservanza del metodo di lettura complessa alla quale invece la scuola si sforza di educare, lasciatemi dire in maniera egregia. La scena sociale sembra invece ignorare tale necessità, con ricadute preoccupanti sulla struttura mentale dei giovani. Che vengono penalizzati dall’ ottusità di un’opinione pubblica forgiata da schemi di pensiero cui spesso non corrisponde reale capacità attuativa; propri di politici e opinionisti di tutti gli schieramenti, che perseguono l’approssimazione semplicistica del partitismo, della faziosità, della logica di opposizione aggressiva, se non volgare, indifferenti alle ricadute diseducative del loro stile e delle loro prese di posizione.
Una politica per governare la complessità.
È evidente l’anacronismo di un sistema parlamentare dove ancora si procede per contrapposizioni binarie governo-opposizione, quando la politica andrebbe reinventata per adeguarla nei metodi e nei fini ai nuovi scenari di estrema complessità globale.
Pianificare scelte legislative e di governo non è un esercizio che può far capo a un “uomo forte”, né a un partito maggioritario o di minoranza che sia, se ancora perseguono la logica della conflittualità piuttosto che il modello della cooperazione finalizzato a individuare e attuare strategie in grado di fronteggiare la complessità e dunque la responsabilità rispetto alle ricadute ad “effetto farfalla”.
Un ministro butta lì una frase e le borse vanno a picco; fa un’esternazione razzista e il folle di turno decide di giocare a bersaglio con i passanti di colore. La politica esige ben altra consapevolezza di realtà e di responsabilità. D’altro canto chi sta all’opposizione non sa fare di meglio che cimentarsi, con modalità uguali e contrarie a quelle dell’avversario, in previsioni opinabili sugli esiti catastrofici della politica di governo, alimentando ancor più il consenso verso chi vanta l’ascolto dei bisogni e l’impegno a dare risposte concrete.
I cristiani e la storia
I cristiani cattolici da che parte dovranno collocarsi?
Per i cristiani, credenti in Cristo Gesù, la faccenda si complica ulteriormente perché pensare la storia è pensare che le coordinate spazio-temporali sono sotto la sua signoria, dunque significa assumere un compito che non si esaurisce in una progettualità temporale, pur esigendola. Nella dialettica storica, o meglio, nel provvidenziale attuarsi salvifico, ai cristiani è richiesto di riconoscere i segni dei tempi, di capire come realizzare l’invocazione “venga il tuo regno”.
Vado alle conclusioni dopo questa lunga premessa per poter riflettere su quale debba essere la posizione dei cristiani di fronte allo scenario politico. Penso che occorra individuare criteri e modalità coerenti che vorrei provare a sintetizzare.
Conclusioni – criteri per orientare l’azione politica.
Primo, darsi un criterio fondante del proprio pensare ed operare: il buonismo non ha niente a che vedere col Vangelo che richiama al discernimento responsabile, ma tanto meno è evangelico pensare ad una salvezza per gerarchie, per classi, per genere, per privilegio; si può mediare e disquisire su tutto tranne che su riduzionismi di sorta riguardo a qualsiasi essere umano; il criterio ineludibile è il riconoscimento incondizionato dell’altro; la prassi politica varrà nella misura in cui saprà attuare strategie inclusive capaci cioè di coniugare progresso interno e integrazione virtuosa di ogni “diversità” che deve sempre considerarsi “accidentale” rispetto alla “sostanziale” e dunque irriducibile realtà che ogni essere umano è in sé.
Secondo, darsi un metodo: da cristiani non possiamo lasciarci irretire da chi millanta soluzioni pronte e sicure a problemi annosi e complessi, abdicando alla lungimiranza della storia che necessita al contempo di ripensare il passato e di prefigurare il futuro, di guardare alla realtà locale in interconnessione con quella globale, secondo un’intelligenza politica che sappia procedere per soluzioni convergenti, costruttive, spesso tanto sagge quanto lente e complicate; “prima gli italiani” è uno slogan-trappola perché ci riporta all’idea della causalità come fattore lineare, tipica modalità di un pensiero privo di creatività innovativa, quella che invece si esige da chi deve fare scelte politiche di governo attente ai bisogni reali ancorati sempre nel “radicamento” di cui parlava Simone Weil, cioè nel principio ineludibile secondo il quale non si può salvare la vita di un singolo uomo senza che sia chiaro il valore della vita in sé.
Terzo, vivere l’impegno politico nel respiro della fede: essere cristiani, credere che Gesù è il Cristo significa pensare, parlare e operare nella straordinaria contraddizione di chi vive il vanto di essere profeta e al contempo l’umiltà del “servo inutile”; possiamo rispondere a questa specialissima esistenza di esseri umani chiamati a costruire la storia per conto di Altro, solo ascoltando il Logos, interrogando il tempo del mondo nell’unico modo in cui ci è dato di accogliere e adempiere la Parola, cioè pregando. Diciamo la nostra, assumiamo posizioni, facciamo le nostre scelte, ma solo dopo l’ascolto silenzioso, profondo, attento, personale e comunitario della Parola che ci rende capaci di discernere i rami secchi da quelli destinati a portare frutto, la zizzania dal grano, la scena apparente del mondo dalle prospettive di vita vera. Rimarremo confusi, frazionati, fraintesi e persino divisi finché non impareremo a muovere i nostri passi se non dopo aver chiesto: “Signore, da chi andremo?”.
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