di Nicola Filippone
No, non sono un giurista e non spiegherò la riforma costituzionale, sono un docente di storia e filosofia, che ha sempre respinto gli inviti a candidarsi e che non ha mai fatto trapelare le sue simpatie politiche a scuola tanto che, ogni volta che una mia classe termina il suo corso di studi, mi rivolge invano la consueta domanda: “professore, ci dice per chi vota? finora non siamo riusciti a capirlo”.
Ci sono però dei momenti, come quello che stiamo vivendo, in cui non si può rimanere neutrali ed è necessario schierarsi, perché la posta in gioco non è una maggioranza parlamentare, e quindi la vittoria di un partito o di una coalizione, ma un bene più grande che si chiama sovranità popolare. Espliciterò allora le ragioni per cui voterò No, come spero faccia la maggioranza degli Italiani.
Ritengo che il Paese attraversi il rischio di perdere la sovranità democratica, tale convinzione si basa innanzitutto sul quesito referendario, che nell’insieme è ingannevole come i manifesti della propaganda del Sì, tanto da risultare offensivo dell’intelligenza dei votanti e del loro discernimento. Se però esaminiamo il primo punto, quello che dovrebbe abolire il bicameralismo paritario, notiamo che sulla scheda referendaria è scritto “superamento” anziché “abolizione”. Evidentemente perché non si abolisce un bel niente! Eppure si fa credere che votare Sì significhi volere la fine del bicameralismo perfetto e lo snellimento dell’iter legislativo. In realtà, con la riforma, dopo che una legge è stata approvata dalla Camera, il Senato, entro dieci giorni, può disporre di esaminarla ed entro i trenta giorni successivi può proporre modifiche che devono essere di nuovo approvate dalla Camera in via definitiva. Dunque ai giorni necessari per la prima approvazione se ne sommerebbero altri quaranta più gli altri per l’ultimo passaggio alla Camera! Per non parlare di alcuni casi, come i trattati con l’UE, in cui la funzione legislativa sarebbe esercitata come oggi dalle due camere, con il paradosso di affidare ai sindaci e ai consiglieri regionali la politica comunitaria.
Il secondo punto del quesito parla di una riduzione del numero dei parlamentari, è chiaro che si vuole sfruttare il forte sentimento antipolitico che serpeggia in gran parte dell’opinione pubblica, incline ad accogliere qualunque iniziativa avente come effetto un ridimensionamento della classe politica e dei suoi privilegi. Peccato che la riforma estenda la meno tollerata delle prerogative parlamentari (l’immunità) anche a chi non sarà più eletto dal popolo (i senatori) e dunque non rappresenterà la nazione né esprimerà più la sovranità popolare.
Non mi pronuncio sul contenimento dei costi, ma condivido chi sostiene che il risparmio (49 milioni di euro, secondo la Ragioneria dello Stato), non possa giustificare questa colossale mistificazione. Gli altri due punti (soppressione del CNEL e revisione del Titolo V) sono inseriti a mo’ di esca per attirare dalla parte del Sì chi li condivide pur essendo contrario a tutto il resto.
Ma il vero rischio per la sovranità popolare proviene dalla genesi della riforma. La Costituzione è la legge che costituisce lo Stato, che ne segna l’atto di nascita e la sua forma. Dove il popolo è sovrano essa è scritta ed approvata da un’assemblea costituente eletta a suffragio universale, come avvenne in Italia settant’anni fa. Il parlamento può modificarla perché possiede il potere costituente, quando è eletto dal popolo. Quello attuale non ha questo requisito, la legge con cui è stato eletto è infatti incostituzionale, in quanto per la Consulta nega agli elettori il diritto di scegliere i candidati da votare. Ovviamente la Corte non poteva dichiarare illegittime le camere, che in questi anni hanno frattanto legiferato, né poteva costringere il Capo dello Stato a scioglierle, giacché questo potere spetta esclusivamente a lui. Il messaggio era chiaro: si approvi una nuova legge elettorale e poi si vada a votare per eleggere un parlamento legittimo non solo formalmente ma anche moralmente. Invece, con la nota arroganza di chi ha mire egemoniche, tra ricatti e colpi di maggioranza, un manipolo di nominati dalle segreterie di partito ha cambiato 47 articoli della Costituzione.
Se non fossi vincolato ai 5000 caratteri richiesti dalla redazione confronterei il linguaggio fluido ed elegante della nostra Carta con quello ambiguo e astruso della riforma (mai fidarsi dei politici che non si fanno capire!), mi soffermerei sulla volubilità di alcuni esponenti del Sì, sulla grave spaccatura nata attorno ad una questione che avrebbe invece preteso il massimo della coesione, sull’italicum e su tanto altro.
Concludo parafrasando la domanda con cui nel 2006 Sergio Mattarella, in piena campagna referendaria contro la riforma berlusconiana, convinse me a votare No: preferite la Costituzione scritta da De Gasperi, Moro, Dossetti, La Pira, Pertini, Saragat e Togliatti o quella di Renzi, Boschi e Verdini?
La risposta il 4 dicembre.
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