di don Cosimo Scordato
Accogliendo l’invito di G. Savagnone a sviluppare con pacatezza la riflessione sulla legge del celibato dei preti, ci permettiamo di offrire alcune osservazioni; ci agganciamo alla considerazione conclusiva nella quale egli, formulando il proprio punto di vista, giustifica la legge sul celibato dei preti con l’affermazione: “La sua (del prete) missione è, da sempre, identificata come qualcosa di totalizzante, che lo consacra al servizio degli altri, senza distinzioni”.
Che il celibato possa consentire una disponibilità nei confronti della comunità non è in discussione; anche se vale la pena ricordare come si siano svolte storicamente le cose; infatti, la scelta dei consigli evangelici (castità, povertà, obbedienza) ovvero la cosiddetta condizione ‘totalizzante’, nel primo millennio era considerata prevalentemente tipica della vita religiosa e non dei preti; per secoli comunità di religiosi o di monaci hanno praticato i consigli evangelici senza che questo li abilitasse ad accedere al ministero ordinato; è soprattutto dalla riforma gregoriana dall’XI-XII secolo in poi (non senza motivazioni di tipo economico: la dispersione dei beni ecclesiastici tra i figli dei vescovi e dei preti!) che si volle proporre ai preti l’ideale monastico e ai monaci il ministero ordinato.
Ribadiamo che non si ha niente in contrario che possa continuare la prassi del prete celibe, augurandosi che, in questa modalità, egli possa offrire sempre il meglio di se stesso a servizio della comunità; resta da verificare come concretamente questo avvenga e in che modo la suddetta condizione ‘totalizzante’ non debba fare realisticamente i conti con orari e modalità precise; in buona parte dei casi (e di ciò non c’è da meravigliarsi) le concrete disponibilità offerte alla comunità e ai suoi bisogni risultano abbastanza limitate, quasi ad tempus (per lo più di giorno e neppure in tutte le ore). Inoltre, pur ribadendo il valore altamente positivo della scelta celibataria, non diamo per scontato che – nella concretezza delle situazioni personali – essa possa prestare il fianco a qualche defaillance sul piano della maturità psicologica, dell’autentica disponibilità al servizio, della libertà vissuta senza atteggiamenti di dominio e scevra da tentazioni di protagonismo (sentirsi diversi e migliori) e così via.
L’esigenza che si vorrebbe rappresentare è che affermare il valore positivo del celibato non deve comportare la svalutazione del sacramento del matrimonio; quindi ci sentiamo di prendere in considerazione le ulteriori possibilità.
a. Ci chiediamo se non sia venuto il momento di considerare di potere dare il ministero presbiterale a persone sposate e che abbiano dato buona prova nella loro esperienza coniugale e familiare; come è stato ribadito anche dal papa la legge del celibato non è un dato dogmatico; è una legge ecclesiastica ancora in vigore presso la chiesa cattolica (non presso la chiesa ortodossa, né presso la chiesa evangelica); detta legge ha caratterizzato soprattutto la storia del secondo millennio ma non è riconducibile né alla prassi primitiva delle Chiese, che, con alterne vicende per quasi un millennio, hanno accettato il prete sposato; né alla Scrittura che, almeno in due testi del Nuovo Testamento prevede tranquillamente che l’episcopo e il presbitero siano sposati e che anzi, proprio l’aver dato buona prova nel dirigere la propria famiglia, costituisce una buona condizione per il ministero ecclesiale: “Il vescovo sia irreprensibile, sposato una sola volta, sobrio, prudente, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?” (I Timoteo 3, 2-5; ma cf anche Tito 1, 6)”. Il fatto che possa esistere il prete sposato non compromette il carisma del celibato, che può essere riconosciuto come condizione conveniente, ma non esclusiva, di accesso al ministero ordinato; né ipotizziamo che tutti i celibi debbano accedere al ministero ordinato.
b. Parimenti ci chiediamo se non sia il caso di dare l’opportunità ai preti, che si sono sentiti obbligati a interrompere il ministero per potersi sposare, di essere reinseriti nel proprio ministero. Pensiamo che la grazia del sacramento coniugale non solo non si oppone alla grazia del ministero ordinato (come era nel primo millennio nella tradizione indivisa della Chiesa e come continua a essere nella tradizione ortodossa e protestante), ma potrebbe rappresentare una opportunità ulteriore; perché l’esperienza della vita coniugale e familiare dovrebbe impedire a un prete di offrire il suo ministero (in quanto prete) in maniera totalizzante? L’indicazione della Lettera di Paolo a Timoteo sembra favorire questa prospettiva se non proprio questa opportunità; infatti, la capacità di guidare la piccola comunità familiare viene considerta come una buona predisposizione a guidare una comunità più ampia.
c. La terza considerazione è relativa ai casi accennati dalla Lettera inviata al papa; al di là delle singole vicende, ci chiediamo se non sia venuto il momento di ripensare il dato istituzionale della legge sul celibato; probabilmente siamo dinanzi a una svolta, che richiede maturazione e adattamenti; ma, come viene riconosciuto nei processi storico-culturali, i fatti avvengono non a caso o solo per debolezza o infedeltà; può darsi che è venuto il momento di riconoscere che accanto al modello del presbitero celibe si possa dare spazio al modello del presbitero uxorato; cosa che la Chiesa cattolica ha riconosciuto, da secoli, ai preti di rito greco provenuti (nel XVI secolo) da area albanese e, recentemente, ai preti anglicani che si sono ‘convertiti’ al cattolicesimo. Perché non si potrebbe riconoscere, al fine di dare pace alla loro vita, anche a coloro che dovessero, tardivamente, scoprire di non essere (più) chiamati al celibato? A chi si farebbe male? Si cercherebbe solo il bene delle persone (i preti e le donne coinvolti) nella concretezza della loro storia; si darebbe maggiore importanza al sacramento del matrimonio nel momento in cui lo si riconosce compatibile col sacramento dell’ordine; si aiuterebbero le persone a uscire dalle situazioni di ambiguità; alla fine, si promuoverebbe semplicemente il bene della Chiesa nelle persone che ne fanno parte! Il paragone avanzato da Savagnone (può capitare anche a un uomo sposato di innamorarsi) non ci sembra pertinente perché nel caso dello sposato c’è il vincolo matrimoniale, nel caso del prete c’è solo il legame a una legge ecclesiastica, che può essere ridimensionata!
d. Infine, parlando di scelta totalizzante preferirei che fosse riferita allacondizione battesimale (e dei sacramenti dell’iniziazione cristiana); la vera svolta, infatti, non è nello scegliere il celibato o nell’accedere al ministero ordinato; la vera trasformazione radicale avviene in forza della iniziazione cristiana; non c’è niente di più bello e di più grande dell’entrare nella condizione della filiazione divina nel circuito dell’amore trinitario, anche se sperimentiamo che detta consapevolezza stenta a maturare nel popolo cristiano. Non che non sia importante il ministero ordinato; ma esso è un ministero, ovvero un servizio alla comunione visibile della comunità; riteniamo che proprio in questo servizio vada individuata la specificità del ministero ordinato dell’episcopato e del presbiterato e che, conseguentemente, in direzione di essa vadano considerati il riconoscimento del carisma vocazionale e le attitudini personali e, conseguentemente, le scelte formative.
La recente messa in discussione di tante tematiche, finora considerate intoccabili, sollecitata dal questionario dell’episcopato in vista del sinodo dei vescovi sulla famiglia; l’invito di papa Francesco ad avere misericordia rivolgendo attenzione alle persone nelle loro difficoltà; ma soprattutto l’annunzio evangelico di Gesù che la legge (il sabato, il tempio… ma anche la legge ecclesiastica del celibato!) è per l’uomo e non l’uomo per la legge … ci fanno ben sperare che qualcosa possa cambiare; il duplice modello del presbitero celibe e uxorato (fin dall’inizio del ministero o maturato strada facendo) può risolversi in arricchimento per tutti!
v. anche l’articolo di Giuseppe Savagnone, cui si riferisce l’Autore: I preti dovrebbero sposarsi?
Lascia un commento