di Giuseppe Savagnone
Non sempre sono d’accordo con ciò che Ernesto Galli della Loggia scrive nei suoi editoriali sul «Corriere della Sera». Ma quello di domenica 8 marzo sulla scuola mi è sembrato, per certi versi, così coincidente con quello che da molti anni è il mio punto di vista – con due sole importanti riserve che alla fine segnalerò – , da poterne fare la base per il “chiaroscuro” (più scuro che chiaro) di questa settimana. Lo sfondo è il progetto relativo a “la buona scuola” lanciato dal governo Renzi, delle cui difficoltà di realizzazione si parla in questi giorni. L’articolo di Galli della Loggia non si sofferma tanto su queste difficoltà tecniche, quanto sul significato complessivo del progetto e su ciò che in esso si dice o, meglio, non si dice.
«La buona scuola», osserva l’autore, «non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti assunti e progredenti nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari (tutti bravi? Siamo certi?) immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, e sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli, visto che specie sui mezzi e i modi per conseguire gli ultimi due è lecito avere molti dubbi. Ma la buona scuola non è questo».
Non sarebbe giusto svalutare i problemi organizzativi. Essi sono sicuramente fondamentali ed è importante che il governo se ne occupi. Anche se, nel modo attuale di gestirli, si può notare già una logica che guarda più al posto di lavoro che non alla qualità culturale (per i precari) e che, anche per quanto riguarda la valutazione del merito, fa temere l’applicazione di logiche meramente formali e quantitative (ore di lavoro in più, funzioni svolte in istituto, etc.), che non garantiscono per nulla il livello dell’insegnamento.
«La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite – esagero – neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino – e vorrei dire di più, di persona – che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».
È questo il punto cruciale. Si sbandiera come svolta decisiva l’introduzione, nella vita scolastica, degli strumenti elettronici. Ma qui non è solo un problema di mezzi: quelli sono ormai molto più sofisticati che in passato e il “pof” (piano dell’offerta formativa) di ogni istituto ne contiene sempre di nuovi (viaggi, gemellaggi, laboratori teatrali, etc.). Nella nostra scuola sono i fini che sono venuti meno! E’ «l’idea» di «ciò a cui la scuola deve servire», «del tipo di cittadino», «di persona», «che si vuole formare». Con l’immediata ricaduta politica: «E dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire».
È ai fini della scuola che bisogna di nuovo cominciare a guardare. «Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società».
Finché questo non sarà messo all’ordine del giorno come il problema cruciale, si continuerà sulla strada già così brillantemente battuta dai governi precedenti (vi ricordate la «svolta epocale» della Gelmini?) e di cui sono frutto i giovani smarriti e qualunquisti che oggi stentano terribilmente non solo a trovare un lavoro – questo è un dramma oggettivo – , ma a diventare adulti (e questo è un dramma soggettivo).
Si potrà obiettare giustamente – questo è il primo limite del discorso di Galli della Loggia – che non si può addossare solo alla scuola la responsabilità dello sfascio etico e culturale, prima ancora che economico, in cui il nostro Paese si trova invischiato da anni. Si potrà notare che la famiglia e la Chiesa non sono state in grado di fare molto meglio e che l’istituzione scolastica è pur sempre lo specchio di una società. E proprio questa società nel suo complesso, attraverso i mezzi di comunicazione, le mode, gli esempi (si pensi a quelli della classe politica), contribuisce in modo decisivo alla (dis)educazione delle nuove generazioni.
Ora, se questo è vero, rivendicare, come fa l’autore, il ruolo della «collettività», nelle scelte relative alla scuola, invece di affidarle «a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati», non sembra una buona soluzione. Oggi proprio la «collettività» marginalizza la dimensione propriamente educativa della scuola, reputa “inutile” buona parte di quello che vi si insegna, giudica i docenti dei fannulloni fin troppo profumatamente pagati e difende i ragazzi quando vengono rimproverati o prendono cattivi voti.
In realtà, solo che chi sta nella scuola può cambiarla, dal di dentro. Sono gli insegnanti – svalutarne la funzione decisiva è il secondo limite dell’articolo – che possono e forse devono reagire, non solo puntando sulla loro competenza nelle rispettive discipline, ma riaprendo una riflessione e un confronto sui fini. Si tratta, in altri termini, di tornare a pensare l’istruzione in funzione dell’educazione, la trasmissione dei saperi in funzione della crescita complessiva di personalità che non sono solo cervelli. Questo richiede però, in una società pluralistica, il coraggio di riaprire il confronto sui valori, per vedere se è possibile ricostruire un orizzonte di fini condiviso, o almeno condivisibile, a livello pubblico.
È un’impresa ardua (oggi su questo piano, per prudenza, non ci si pone più da tempo), ma indispensabile se si vuole che la scuola possa di nuovo contribuire a formare dei cittadini. E proprio il regime dell’autonomia, malgrado sia stato finora utilizzato in modo spesso distorto, potrebbe favorire questa riflessione comunitaria nei singoli istituti.
Sì, è un impresa ardua. Ma già il prendere coscienza della sua urgenza, già l’affiorare di queste istanze, sarebbe il segno che la “buona scuola”, in Italia, è ancora possibile.
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