Quale ragione e quale fede?
Negli ultimi giorni di febbraio, le prime indicazioni dell’Arcidiocesi di Palermo per fronteggiare l’emergenza Coronavirus stabilivano la sospensione dello scambio del segno di pace tramite una stretta di mano, la distribuzione della Comunione sulla mano dei fedeli e la rimozione dell’acqua lustrale dalle acquasantiere. Avevo letto sui social il commento di un amico, secondo il quale, al momento di fare scelte importanti, anche i credenti si dimostrano materialisti, come i non credenti. La mia lettura di quelle indicazioni era del tutto opposta: le ritenengo non solo misure ragionevoli e dettate dal senso di responsabilità dei pastori, ma anche coerenti con una visione in qualche modo “spiritualistica” della religione: non abbiamo davvero “bisogno” di stringerci la mano per fare pace, né la benedizione di Dio è vincolata al contatto fisico con l’acqua lustrale (lo Spirito non soffia forse dove vuole?).
Niente messa: che si fa?
Con l’aggravarsi della situazione, il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri entrato in vigore l’8 marzo ha sospeso tutte le cerimonie religiose. Tra i primi effetti sui social media di tale decreto, accolto con «sofferenze e difficoltà» tra i vescovi, i sacerdoti e i fedeli (come asserisce la relativa nota della CEI), è stato osservato il moltiplicarsi di celebrazioni “senza il popolo” trasmesse in streaming, e di affermazioni sul valore della comunione spirituale, sul vincolo indistruttibile della comunione dei santi, nonché di inviti a restare uniti nella preghiera.
Tuttavia, altre reazioni sono state meno dettate dalla ragionevolezza. Partendo dall’assunto che il vero pericolo non è il contagio del virus, bensì quello della paura, concedendo una approvazione meramente retorica «a una legittima, proporzionata e doverosa prudenza e alle misure cautelari di tipo sanitario», si giunge alla conclusione che «chiudere le porte ai cristiani e pensare di potersela cavare con la scienza umana, è chiudere le porte all’aiuto di Dio. È confidare nell’uomo, invece che confidare in Dio».
Sinceramente pensavo che l’aiuto di Dio, in questa difficile situazione, si manifestasse anche attraverso la scienza medica (non è forse un dono di Dio la ragione, da cui la medicina proviene?). Non credo che preservare la Tradizione della Chiesa significhi voler sconfiggere il Coronavirus ripercorrendo le processioni dei flagellanti che invocavano la fine della peste, come nell’iconica rappresentazione datane da Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo.
Non considererei eroico il comportamento di sacerdoti o gruppi di fedeli che intendessero violare tali norme di tutela della salute pubblica. È eroico, semmai, il comportamento di tutto il personale sanitario che mette a rischio la propria vita per garantire le cure migliori a coloro che sono già stati contagiati dal virus.
Cattiva logica e tentazioni
Se partendo dal principio secondo cui ‘la salvezza dell’anima è più importante della salute del corpo’ si vuole derivarne la proposta di aprire le chiese per le celebrazioni liturgiche, non stiamo compiendo un atto di fede. Mi pare, invece, che ne risulti un salto ingiustificato, dal punto di vista logico, e una pericolosa mancanza di discernimento, dal punto di vista spirituale. Basta un pizzico di buon tomismo per ricordare che la Grazia divina non annulla la natura umana bensì la perfeziona (Summa theologiae, I, q. 1, a. 8, ad 2).
L’argomento per cui ‘se un buon cristiano esce di casa per andare a messa, allora Dio sicuramente lo proteggerà dal contagio’, appartiene ad un modo di ragionare pericoloso: si tira la corda, si mette alla prova Dio.
Gaetano Piccolo SJ, commentando sul suo blog (www.cajetanusparvus.com) il Vangelo delle tentazioni di Domenica 1 marzo 2020, è molto chiaro: «Quando nella relazione con Dio, quasi sotto l’apparenza di una profonda vita spirituale, lo mettiamo alla prova, avanziamo pretese e lo sfidiamo con i ricatti, abbiamo già ceduto alla tentazione».
Affidiamoci a Dio, ma fidiamoci anche della competenza degli esperti che ci chiedono di restare a casa.
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