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Quando i giocattoli li portavano i morti…

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di Sabrina Corsello

Vi siete mai  fermati ad osservare i giochi dei nostri bambini? L’avvicinarsi della ricorrenza dei defunti può essere l’occasione per ragionare un po’ su questo argomento nella sua complessità, dal momento che da sempre questa festa è stata strettamente collegata ai bambini e ai loro giocattoli.

Ancor prima dell’avvento della società consumistica, la commemorazione dei defunti, infatti,è stata sempre considerata  la festa in cui a ciascun bambino spettava ricevere il suo dono, sia che si trattasse del giocattolo tanto atteso o semplicemente di qualche dolcetto. Ancora oggi, questa tradizione è rispettata e, in molte città, vengono allestite le fiere dei morti che, con le loro bancarelle colorate e ricche di giocattoli e dolciumi, lasciano ai genitori e parenti solo l’imbarazzo della scelta. Tuttavia sembra che di questa usanza oggi sia sopravvissuto solo l’aspetto consumistico del dono e che, in realtà, se ne sia perso  il vero  significato.

La Festa dei Morti è tra i ricordi più cari della mia infanzia. Era un giorno di festa molto sentito e certamente molto diverso da quello che oggi è la festa di Halloween. Non credo che si tratti di rivendicare alcuna superiorità dell’una rispetto all’altra, se mai di comprendere che la seconda semplicemente non appartiene alla nostra cultura. Ormai è piuttosto evidente infatti che,  per quanto ci si sia sforzati di rendere simpatica e attraente questa Notte delle Streghe, con le più svariate e accattivanti trovate consumistiche, ciò che di fatto ne è derivato è solo uno sterile scimmiottare usi e costumi che non ci appartengono e che, in quanto si giustappongono ai nostri, risultano essi stessi svuotati di contenuti e significati.  Ciò cui stiamo assistendo è, dunque, un depauperamento e uno svilimento del significato profondo della nostra tradizione, in cambio di una alquanto incerta aspettativa di vago divertimento che, avendo presa soprattutto nelle nuove generazioni, di fatto finisce con il privarle di una parte del nostro bagaglio culturale e del suo alto valore educativo.

Un tempo Commemorare i defunti  non voleva dire soltanto ricordare chi non c’era più, ma soprattutto rendere presente l’assente. Non a caso, i regali non venivano mai consegnati personalmente, ma opportunamente nascosti, seguendo la tradizione per la quale, nella notte tra l’uno e il due novembre, i defunti visitano i propri cari ancora in vita, portando ai bambini dei doni. Più che di una consegna, pertanto si trattava di un espedienteattraverso cui era possibile rappresentare una linea di continuità tra chi era vivo e chi non lo era,  sollecitando l’immaginazione infantile.

Personalmente ricordo benissimo questo rito del regalo. Il giorno dei Morti noi bambini ci svegliavamo di buon mattino con la curiosità di vedere cosa ci era stato portato durante la notte. Ben presto, ci mettevamo alla ricerca della sorpresa nascosta, improvvisando una sorta di caccia al tesoro per la casa che ci portava ad esplorare i posti più nascosti e improbabili di ogni stanza: dietro una tenda, sotto il letto, dentro un armadio. Nel ripensare a quei gioiosi mattini, oggi comprendo che, proprio quel gioco era, in realtà,  il nostro vero regalo, molto più del giocattolo in sé.

Ma quali erano i giocattoli portati dai nostri morti e quale rapporto avevamo noi bambini con essi? Quello che  ricordo era un tempo in cui si giocava inventandosi il gioco, che era innanzitutto fantasia, immaginazione. I giochi pertanto erano vivi, animati da continui rimandi ai nostri vissuti. La vita stessa entrava cioè a far parte del gioco, forse anche per quella spontanea lucidità infantile che spesso è capace di vedere la vita stessa come gioco. Il primo gioco era quello di inventarsi il gioco, a partire dalla presenza discreta di pochi e semplici giocattoli. Le bambole con i loro accessori, le macchinette, i soldatini, la palla, la corda per saltare, erano lì in attesa che fossimo noi a darvi vita. Il gioco non era mai nell’oggetto in sé, essendo questo solo  l’occasione per sbizzarrire la nostra fantasia e mettere in movimento il nostro corpo. Non esisteva gioco, infatti, che non spingesse al movimento, alla ricerca di spazi aperti da vivere e da condividere. Le ville, i giardini, gli ampli spazi, erano i luoghi privilegiati degli incontri.

Oggi, purtroppo, la diffusione dei giocattoli elettronici ha portato i nostri figli a stare per lo più fermi, seduti. Sembra incredibile, ma davanti ad una consolle, l’unico movimento previsto è quello  delle loro piccole dita, abilissime e velocissime nel pigiare tasti, o semplicemente sfiorare schermi touchscreen. Non è raro assistere a scene di bambini ipnotizzati da immagini subite che velocemente si susseguono nello schermo e che li costringono ad una nociva passività, fisica e psichica. Come può un bambino semplicemente osare di immaginare ben oltre ciò che gli è già dato da quello schermo? Grafica perfetta, mondi virtuali sempre inesauribilmente nuovi e, in quanto tali, mai del tutto esplorabili. Non c’è tempo, né spazio per la fantasia di un bambino. Tutto è già dato e ben confezionato grazie ad immagini ad alta definizione capaci di catturare per ore l’attenzione persino degli adulti. Impossibile resistere a questi giochi così sapientemente costruiti, capaci di immettere in un mondo virtuale che, ben presto, prende il posto della realtà. In questo mondo fittizio non c’è spazio per l’ incontro con l’altro, non c’è spazio per l’incontro con la natura che prelude la consapevolezza di essere parte integrante di essa. Non c’è spazio per la creazione di quei mondi  fantastici che non puoi subire perché ne sei l’autore. 

Non so se e in che misura credevamo veramente a quella storia dei nonni o di altri parenti che da morti venivano, nel cuore della notte, a portarci i regali, ma una cosa è certa: questo era quello che tutti noi bambini volevamo credere. Infatti, quello che ci veniva offerto aveva un valore ben superiore ad ogni altro possibile regalo. Ci era data la possibilità di commemorare e dunque di salvaguardare la memoria, senza per questo dovere indugiare in uno stato di tristezza fine a se stesso. Attraverso quel gioco improvvisato della caccia al tesoro, infatti, l’ansia della perdita e il dolore del distacco potevano tradursi in gioia e qualsiasi  oggetto ricevuto diveniva il pretesto per rinnovare la presenza degli affetti più cari.

Come non valutare l’alto valore pedagogico di questa realtà capace di porre solide basi alla dimensione relazionale e affettiva. Il bambino era incoraggiato a crescere nella fiducia che le relazioni vadano ben oltre il dato sensibile e che la vita procede ben oltre quella terrena; nella consapevolezza di una continuità generazionale che trascende il limite della morte e che rafforza il sentimento di appartenenza.

In ultima analisi, la morte diveniva così pensabile, piuttosto che un fatto da rimuovere. La commemorazione dei defunti era l’occasione educativa per aiutare il bambino a comprendere il valore della relazione, oltre il dato sensibile. Ricordo che era normale sentir dire che i morti ci vedono, ci parlano, ci ascoltano e che le persone che ci hanno voluto bene, anche dopo la morte, sono sempre con noi.  Si cresceva con la certezza di una continuità tra la vita e la morte ed era facile pensare all’esistenza di una vita ultraterrena.

Altro che notte più paurosa dell’anno, altro che elogio delle streghe, che apparizioni di mostri e fantasmi! Non c’era niente da esorcizzare o sdrammatizzare, in quanto il ricordo degli assenti diveniva opportunità di ritrovata sicurezza, di gioia e condivisione. Le vetrine coloratissime di dolci di ogni forma e colore ne erano testimonianze.

Non è un caso che proprio in questa occasione i dolci caratteristici, siano la martorana, e i pupi di zucchero, ossia semplice pasta di mandorla e zucchero che sapientemente lavorati dalle mani dei pasticceri, i quali riescono a dare vita ai più svariati personaggi, a ogni tipo di cibo, frutta, pesce, pane, salumi etc. E’ come se attraverso questi dolci, l’intento fosse quello di evocare e celebrare la vita in tutte le sue innumerevoli  forme.

Ma si trattava anche di un giorno di silenzio e di preghiera. Ricordo l’irrinunciabile visita al camposanto. Ci si dava appuntamento la mattina presto, si apriva la cappella, si spolveravano i vecchi cuscini, e subito si andava a riempire il secchio d’acqua per rinfrescare l’altare, dove il lontano cugino sacerdote avrebbe celebrato la Messa. 

Momenti di silenzio, di raccoglimento, occasioni preziose per fare memoria, per ricordare chi sei e da dove vieni.

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