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Quel che gli studi umanistici possono fare di noi

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di Luciano Sesta

 

Oggi le discipline umanistiche vivono sotto assedio. I loro nemici più pericolosi non sono gli alunni che non vogliono studiarle, ma i governi dei paesi convinti che la mancanza di lavoro si possa risolvere non con politiche economiche più sagge, ma eliminando il latino, il greco e la filosofia dalle scuole. Tutto ciò che non ha un’immediata spendibilità sul mercato del lavoro è considerato una perdita di tempo, un residuo del passato. Non c’è dunque da stupirsi se il magnate di Microsoft, Bill Gates, alla domanda se avrebbe mai finanziato una ricerca internazionale di filosofia, ha risposto che lo avrebbe fatto per qualunque altra disciplina, ma non per una così vistosamente “astratta e inconcludente” com’è la filosofia. E Barack Obama, biasimando il proprio paese ed elogiando Singapore, ha dichiarato che “lì non perdono tempo a insegnare cose che non servono, ma cose realmente utili, che preparano alla carriera” (cit. in M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, Il Mulino 2010). Nella scorsa primavera, in Spagna sono state diminuite le ore di filosofia nei licei, a vantaggio dell’educazione finanziaria. Il ministro dell’educazione spagnolo José Ignacio Wert ha così spiegato il provvedimento: «È necessario che i nostri figli, ovvero i consumatori del futuro, acquisiscano in ambito finanziario un livello più alto di quello dei rispettivi padri. La crisi ha evidenziato una carenza di competenze, molte volte dannose per la singola economia familiare».

 

Di fronte a questa mobilitazione generale contro gli studi umanistici, ci sono due possibili reazioni. La più frequente è quella di negare che le discipline umanistiche siano inutili. Umberto Eco, per esempio, sostiene che non è vero che il liceo classico è inutile e che non offre sbocchi professionali. Lo studio del Latino e della Storia, del Greco e della Filosofia, dice Eco, non ci rende automaticamente capaci di svolgere una determinata professione, ma ci dà la creatività mentale per inventarne altre di professioni e, cosa ancor più importante, ci dota della flessibilità e della capacità di adattamento oggi richieste, in un mondo in cui il posto fisso di lavoro è un vecchio ricordo. Un tentativo analogo è quello del grecista Luciano Canfora, il quale ritiene che la cultura greca, soprattutto, ci trasmette una sensibilità per la politica, ossia per il giusto modo di vivere insieme. Una sensibilità, in particolare, per i problemi che oggi richiedono soluzioni non tecniche, ma appunto etico-politiche. Dello stesso parere è Tullio de Mauro: “eliminare dalle scuole il latino e il greco è un delitto contro la formazione di cittadini critici, creativi e democratici”.

 

Questo tentativo di salvare la cultura umanistica è apprezzabile, ma è forse troppo timido e, in fondo, mostra anch’esso un atteggiamento di sudditanza nei confronti delle leggi del mercato e della logica del problem-solving, tipica del sapere tecnico. Ci si rassegna cioè all’idea che a essere importante non è il contenuto della conoscenza ma l’uso che possiamo farne. Lo studio non consisterebbe nell’acquisire conoscenze di un certo tipo, ma nel saperle mettere al servizio di uno scopo, nel saper coltivare la capacità di adattamento, di affrontare il nuovo ecc.

 

Quando si insiste sulla didattica per competenze, e dunque sull’utilizzo del sapere scolastico, si dà per scontato che l’utente sia in grado di fare un buon uso di tale sapere. Le competenze tecnico-professionali, in effetti, sono utili per qualunque scopo. L’Isis riesce a compiere i suoi crimini anche grazie alle competenze dei suoi ingegneri informatici. Ma, ed ecco il punto decisivo, proprio perché le competenze sono utili a qualsiasi scopo, diventa decisiva la formazione umana di chi deve acquisirle. La scuola deve fornire agli studenti soltanto quello che a loro serve o anche quello che è bene per tutti? È bene soltanto acquisire competenze tecniche o anche formarsi una personalità morale? Secondo la filosofa Martha Nussbaum, per esempio, solo le discipline umanistiche possono trasmettere alle giovani generazioni il messaggio che gli esseri umani sono tutti vulnerabili e mortali e che questo non è un limite da sconfiggere incrementando la propria competitività, ma un’occasione per l’esercizio della solidarietà reciproca. Le discipline umanistiche non sono semplici “materie” da studiare in funzione di competenze da acquisire, ma, appunto, “discipline” da praticare e coltivare.

 

Ma cosa sono, più esattamente, le discipline umanistiche? Sono le discipline che coltivano l’umanità dell’uomo, la sua natura specificamente umana. Per questo venivano chiamate anticamente artes liberales. Non soltanto perché sono proprie dell’uomo libero, che non svolge attività servili a cui altri sono costretti per il bisogno di sopravvivere, ma anche perché promuovono esse stesse la libertà di pensiero e di azione, ossia la capacità di dominare i condizionamenti dell’ambiente e del proprio temperamento (J. Maritain). È vero che in passato questo tipo di formazione, quella che i greci chiamano paideia e i latini studia humanitatis, era riservata a pochi, e aveva dunque un carattere aristocratico ed elitario. Oggi non ci sono più gli schiavi o i servi, da un lato, e i liberi, dall’altro (ma qualcuno potrebbe, non a torto, smentire questa tesi). Oggi siamo, o dovremmo essere tutti, contemporaneamente servi e liberi, dobbiamo tutti, cioè, conquistare la nostra libertà tramite il lavoro (quando c’è) piuttosto che prescindendo da esso. Ed è proprio per questo che l’educazione liberale deve essere equamente distribuita, anche negli istituti tecnici e professionali. Del resto, molte delle qualità umane che le discipline umanistiche contribuiscono a coltivare sono richieste dallo stesso studio delle discipline scientifiche o tecniche. Per diventare (e mantenersi) buoni ingegneri, geometri, medici e biologi, bisogna vincere la pigrizia, applicarsi costantemente, sopportare la fatica in vista di un miglioramento di sé ecc.

 

Certo, la cultura classica, soprattutto gli autori greci e latini, appartiene al passato, e in questo ci appare lontana dalle nostre più immediate preoccupazioni. Ma, come ha scritto Jacques Maritain, si tratta qui della lontananza delle radici dai frutti. Per questo risultano fuori strada indicazioni come quella di Carl Rogers, per il quale “nessun alunno dovrebbe cercare di imparare qualcosa di cui non vede l’importanza”. È spontaneo replicare: si può vedere l’importanza di qualcosa prima di averla imparata? Lo studio delle discipline umanistiche, da questo punto di vista, non è uno strumento per risolvere i nostri problemi, ma un’occasione che ci consente di formarci uno sguardo nuovo sul mondo. Sguardo che potrebbe anche indurci a considerare falsi i problemi per i quali avevamo chiesto il soccorso di un sapere ingiustamente ritenuto incapace di risolverli. Il sapere, infatti, non serve a nulla se non a sapere. A sapere, per esempio, che l’uomo possiede solo le cose di cui può fare anche a meno, altrimenti sarebbero le cose a possedere lui (J. Guitton). E sapere questo non implica saper-fare un determinato tipo di operazione, ma saper-essere un determinato tipo di persona.

 

Si può insomma dire degli studi umanistici quanto Heidegger ha detto magistralmente della filosofia, ossia che il problema non è cosa possiamo farcene delle discipline umanistiche, ma cosa le discipline umanistiche possono fare di noi, non appena smettiamo di considerarle nell’ottica strumentale della loro utilità o inutilità. Questo significherebbe prendere finalmente sul serio la valenza formativa degli studi umanistici, ovvero il fatto che essi non producono qualcosa ma trasformano qualcuno. Dopo aver (veramente) letto Platone, Seneca o Leopardi, tutto rimane infatti come prima, tranne colui che li ha letti. Non si sarà trovato un impiego, né sarà aumentato il proprio conto in banca. Ma si disporrà forse di quella sensibilità necessaria per farsene una ragione. In un’epoca di crisi occupazionale come la nostra, in effetti, il sacrificio o l’impoverimento dell’offerta formativa umanistica, magari in nome di una maggiore spendibilità del titolo di studio sul mercato del lavoro, rischia di privare i nostri giovani di quelle risorse spirituali e morali senza le quali gli effetti destabilizzanti di quella crisi non possono essere né compresi sino in fondo né gestiti costruttivamente.

 

Abbiamo allora bisogno di uscire e di far uscire da questa crisi, senza però subirne l’implicito ricatto, che consiste nell’indurci ad assumere soluzioni esclusivamente tecniche per un problema che non è solo tecnico. Leggere Platone e Shakespeare non ci aiuta a cambiare le cose, ma a guardarle in modo diverso, non più solo con l’atteggiamento interessato di chi vuole tenerle sotto controllo – e dunque di chi cerca l’“utilità” – ma anche con l’atteggiamento contemplativo di chi vuole capirle – e dunque di chi cerca la “verità”. Quando ciò avviene, la crisi non perde la sua durezza e le soluzioni tecniche la loro urgenza. Ma si ritrova almeno il bello di una lotta per la dignità dell’uomo di cui discipline come la Storia, la Letteratura e la Filosofia sono l’alimento costante e la misura critica necessaria. 

 

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