Recensione a: Giuseppe Forlai: Madre degli Apostoli – Vivere Maria per annunciare Cristo. San Paolo 2014.
Incastonato nei titoli dell’introduzione e di ciascuno dei capitoli del libro, il verbo vivere ne rappresenta forse una delle chiavi ermeneutiche più intense e profonde: vivere, oltre le paure, oltre i giudizi e i pregiudizi, al di là dei capricci di un io pretenzioso ed onnivoro. Vivere con Maria per donare Cristo. Vivere come Maria.
La creatura cristiforme, madre degli apostoli, rifugio dei peccatori, consolatrice degli afflitti. In questa prospettiva, bandito un devozionismo sterile e sdolcinato, affidarsi alla Vergine è atto di coraggio, un gesto dell’aurora, in cui tutto può ancora compiersi nello spazio di una libertà orante di chi si scopre piccolo, povero, semplicemente mancante davanti a Dio.
Tramite testi magisteriali e preghiere di insigni mariologi – tra cui spicca il Beato Giacomo Alberione – l’autore ci conduce, attraverso pagine di un inarrivabile spiritualità lungo questo itinerario che si dipana in tre capitoli, preceduti da una corposa introduzione programmatica e seguiti da una conclusione che lascia trapelare alcuni elementi dell’esistenza cristiana.
Piccole, ma lucenti gemme, sono anche le sintesi posposte a ogni tappa del percorso che non si limitano ad enuclearne le principali tematiche ma lasciano trasparire quella concentrazione, a un tempo mariana e cristologica, che pervade l’intero testo.
Un climax in cui le cose vecchie scompaiono per lasciare posto alle nuove: una scoperta corroborante, anche per chi riteneva di avere un’autentica vita di fede. Sorprendersi a meditare Gesù vivente in Maria, o Maria vivente nella Chiesa, per raggiungere finalmente l’ultimo gradino che poi, a ben guardare, sussume i due precedenti: vivere Maria per annunciare Cristo.
Pensieri, propositi, desideri, si affollano confusamente nella testa e nel cuore dell’autore, presbitero della Diocesi di Roma, fino a quando, durante un viaggio a Lione compiuto con un suo confratello, non comprende la missione della sua vita e del suo ministero: entrare in alleanza con Maria, per donare alla Chiesa nuovi apostoli del Vangelo.
Una missione che diviene questione urgente, bella e seria, per tutta la Chiesa, chiamata a riscoprire tesori di spiritualità che un arido razionalismo, anche teologico, rischia di occultare. Indugiamo su questa grande luce, la cui fenomenologia don Giuseppe lascia baluginare descrivendoci quanto suscitato in lui dalla visione della cappella di Notre – Dame de Fourvière: la statua della Vergine brilla nella sua piccolezza, indossa un vestito bianco cucitole come fosse quello di una creatura che abbia appena ricevuto il battesimo. Una statua e una cappella che contrastano con la tronfia maestosità del Santuario: i paradossi del cuore si riverberano persino nelle pietre.
Nella chiesetta campeggiano lapidi di fondatori di varie famiglie religiose che, nei diversi cimenti della loro vocazione, hanno chiesto aiuto alla Vergine. Quante incomprensioni, anche interne alla stessa comunità cristiana, ciascuno di quei fondatori ha depositato nel cuore trafitto di Maria? Ed ha ricevuto da lei quella consolazione che lo ha portato a perseverare, e che ci conduce oggi a poter ammirare i frutti di tanto zelo apostolico.
La piccolezza della statua, il posare gli occhi ora su questa, ora su quella lapide, sfidando l’ignoranza delle lingue umane, aiutano l’autore a comprendere che quel giorno in cui Maria pregava con i discepoli nel Cenacolo è privo di occaso perché in quella preghiera è possibile riassumere l’orazione di ogni persona, anche la sua e le nostre.
Molti secoli erano infatti trascorsi da quel giorno gerosolimitano, ma anche a Lione la Madre aveva suscitato apostoli dediti alla diffusione del Vangelo, all’educazione, alla catechesi, alle innumerevoli opere di misericordia spirituali e corporali. Tornato a Roma il rovello continua: come far brillare la grazia di Lione? Se Maria è la forma del Verbo, per portare Cristo al mondo dobbiamo allearci con lei, si ma in che modo?
In primo luogo conoscendo la Vergine come collaboratrice dello spirito nella formazione di tutti i cristiani a partire dal loro battesimo, innestati in quel Cristo impressosi in lei fin dal suo concepimento immacolato. In Maria è così prefigurata la nostra condizione, quella di essere non solo voluti, ma desiderati ed amati da Dio stesso: una prefigurazione capace di tralucere, oltre il tempo nel consolante dogma dell’Assunzione.
Va poi meditata la presenza della Vergine nella Chiesa, dalla sorgiva aurora di Pentecoste, al suo multiforme palesarsi nel tempo e nello spazio. In fine si delinea un profilo dell’ apostolo formato alla scuola dello Spirito, plasmato nella piccolezza evangelica.
Il primo capitolo si e ci nutre di una consapevolezza che è ad un tempo fondamentale e fondante: è fondamentale perché alimenta la fede personale e comunitaria donandole una nuova ed inedita freschezza, ed è fondante perché, se viviamo di questa consapevolezza, ogni aspetto dell’ esistere ne è illuminato. Gesù è vivo: non come anelito moralistico, né come memoria custodita dai discepoli o dalla Chiesa; Gesù è non solo contemporaneo, ma presente. Pur stando al di sopra della mia intelligenza, è in me, mi circonda, cresce nello Spirito: Gesù non è una favola.
Una presenza che, fino a quando su questa terra camminiamo nella fede, non possiamo percepire se non analogicamente: come mi accorgo di avere la vista solo quando la luce si posa sugli oggetti che scorgo, così mi avvedo dell’impronta di Cristo mentre compio atti di fede, dono speranza, diffondo amore. E come non perdo la vista se sono al buio, così non smarrisco l’impronta di Cristo anche quando le durezze dell’esistenza rendono quell’orma, sorgente di vita eterna, poco più che uno stagnante rigagnolo.
Gesù non è solo il vivente, ma si è sacrificato per me e, soprattutto, desidera rivivere in me i suoi stessi misteri: la mia esistenza, diviene così una spugna che prova ad assorbire le gocce irrorate dalla Grazia, senza che la libertà ne risulti sminuita. Cristo vive in me con le sue ferite: trasfigurando l’umana fragilità, Dio non chiude gli occhi sui nostri traumi, ma li scruta con misericordia.
Soprattutto egli desidera che siamo noi a distogliere lo sguardo dalle lacerazioni che ci colpiscono per specchiarci nelle sue, le sole capaci di salvare. Lasciare che Cristo viva in me implica un duplice percorso talora non scevro di sofferenza e dolore: occorre liberarsi dalla presunzione di essere bravi secondo lo spirito del mondo – come se il cristianesimo fosse un prolungamento del naturalismo greco-; ma ci si deve difendere anche dall’equivoco, parimenti autoreferenziale, secondo cui le mie cadute, la mia vita disordinata, i miei piccoli e grandi insuccessi, siano il centro dell’universo. Cristo mi vuole misericordioso, anche- se non soprattutto- con me stesso.
Per questo, prototipo di ogni peccatore, Paolo, scrivendo a Timoteo, si scopre più di altri bisognoso di misericordia. Dire che Gesù è per me significa sapersi anche capaci di male e, quindi mendicanti di redenzione: Dio perdonando non omette nulla, non guarda oltre ma dentro: scende nella nostra arida vita, e da Uomo-Dio per me, entra in me. In tal modo Cristo non è più solo oggetto fuori di me, ma principio che mi inabita: ciò che vivo può essere cristificato e, quindi trasformato: il Figlio di Dio non si giustappone alla mia vita ma vi entra e questo ingresso è la Vergine.
Un’esperienza che, lungi dal limitarsi al concepimento, innerva tutta l’esistenza del Nazareno. Si può andare a Messa per molti anni senza riflettere fino in fondo sulle conseguenze di quanto abbiamo detto. Se ciò che viviamo è divinizzato allora, e solo allora, possiamo dire al Cristo oggi e non nel languore del ricordo “ sono triste, vieni tu a vivere in me la tua tristezza, sono consolato, vieni tu a vivere in me la tua gratitudine al Padre”.
In questo orizzonte Gesù, presente nell’Eucarestia, ancora oggi: soffre, prega, ama; guarisce. Se è così, non è tanto rilevante essere famosi o ignoti, ricchi o poveri, sani o infermi: quel che veramente importa e giova è far in modo che ogni piega dell’umano sia abitata e redenta da Cristo offrendola liberamente a Lui. Modello straordinario dell’adesione a Gesù è sua Madre: nella vita nascosta Maria è stata maestra del maestro, chiamata ad essere madre del figlio e da maestra si è fatta discepola, fino alla dolorosa lezione della Croce.
Non meno sconvolgente è la lettura del secondo capitolo: tanto la Chiesa, quanto Maria sono custodite nel grembo dell’Amore trinitario che, lungi dal rinchiudersi in una circonferenza si irradia nella creazione, nella Vergine, nella mia stessa vita di battezzato. Nella mente del Padre la Chiesa non nasce come agenzia morale, né come ente benefico: è piuttosto la casa dei veri adoratori del Figlio.
In questa Chiesa amata e, quindi, voluta dalla prima Persona della Trinità, preesiste Maria modello di ogni credente. Rivestita nell’Annunciazione dalla potenza dell’ Altissimo la Vergine non fugge neppure nell’ora del dolore: sta sotto la Croce con il Discepolo amato, cui Cristo stesso la consegna. Per prima l’Immacolata si fida di Dio. Spirito che è vita e dà la vita, il Paraclito ci allatta tramite i sacramenti, trasforma il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo.
Maria stessa è una manifestazione dello Spirito: dal suo grembo fisico nasce il Cristo, da quello orante sgorga la Chiesa. Presente in Maria lo Spirito assume tre caratteristiche: la lode; la profezia e la libertà. Quella che magnifica un Dio imprevedibile nel cantico di lode incastonato nel Vangelo di Luca è una ragazza di circa quindici anni, cui il concepimento verginale ha portato, dal punto di vista umano, unicamente incomprensioni e problemi, ma che, nonostante questo, non si abbandona ad una sterile lamentazione.
Mossa dallo Spirito vive in rendimento di grazia, e, pur non capendo quanto le sta accadendo, si affida, senza potersi fidare di se stessa, anzi diffida di se, delle sue legittime paure, per abbracciare l’imprevedibile, l’inquietante, l’ignoto. Un atteggiamento questo che suscita naturalmente la profezia: capace di leggere la storia con gli occhi di Dio.
Il popolo eletto era oppresso e l’Altissimo, che in altre epoche aveva parlato, sembrava muto e distante. In una simile temperie appare sorprendente l’episodio della visitazione, in cui Maria, una donna che dal punto di vista sociale e religioso non contava nulla, svela all’anziana cugina Elisabetta il senso ultimo di quanto sta accadendo. Ma è nella libertà, prima manifestazione dello spirito , che la Vergine brilla come archetipo del cristiano: accettare Gesù, condividerne la follia, mentre chi contava – a partire dal re Erode fino ai sommi sacerdoti- lo considerava un visionario non era impresa facile per una donna galilea di quel tempo.
È questa la libertà dello Spirito che prorompe nella storia per mutarne il corso, una libertà che, come un lieve refolo, può, se le apriamo il cuore, brillare anche nella nostra esistenza in cui Maria ci guarda come ha fatto con Gesù: in quel ecco tuo Figlio ciascuno di noi è abbracciato dalla misericordia di Cristo. Regina dei santi la Vergine guida con l’agire e l’amare la Chiesa verso il Signore.
Maria non si limita a pregare, ma vive nella signoria della parola del Figlio, ne percepisce ogni sussurro anche quelli che per noi restano velati dalla laconicità dei vangeli dell’infanzia. Lo stesso amore della Madonna è esemplare: sotto la Croce la Vergine non ha nulla da dare, e per questo accetta di essere donata non a un sommo sacerdote, ma al Discepolo amato da Gesù, altro uomo che non contava nulla.
Da allora Maria è ferialmente presente nella prima comunità di Gerusalemme: colei che ha adorato in silenzio serbando ogni cosa nel suo cuore diviene ora custode della memoria del Figlio. Lei lo ha osservato nel suo crescere, lei lo ha visto morire per il suo popolo, lei è testimone della carne di Cristo. Una vicenda singolare: il Cristianesimo non è una filosofia ma una sequela.
Ma è solo con il terzo capitolo che Maria non si limita ad entrare nella nostra casa, ma ha accesso alle nostre cose, a ciò che abbiamo di più intimo e caro: lasciarla passare è certo atto di libertà, ma se ci incamminiamo con la Vergine sulla via del Vangelo siamo costretti a fare verità sui piccoli idoli che ci portiamo dentro, per lasciar lavorare lo Spirito in noi.
Superati gli inganni dell’ego ci sentiamo radicalmente affidati alle mani della Vergine, chiamati a perdere per donare, a morire a noi stessi per evangelizzare con lei. Un ego che, nel cimento dell’annuncio si scopre relazionale perché innestato nell’Amore trinitario e, quindi nella dimensione mariana e cristologica dell’esistenza.
In bilico tra certezze e dubbi, tra forza e debolezza, atterrato ma non ucciso, il cristiano è chiamato a prendere parte alla lotta, anche quando il suo annuncio del Vangelo risulta debole; anche quando i suoi tentativi parrebbero sterili; anche quando sperimenta l’indifferenza, se non l’ostilità, del mondo.
Contro ogni teologia liberale Forlai ci ricorda che la fede è lotta, con noi stessi e con l’eresia che cerchiamo spesso fuori quando alberga nel nostro animo. Proprio per questo l’esperienza credente non può essere ridotta a conciliazione con il mondo, a mera filantropia, a quel melenso dire alle persone ciò che vogliono ascoltare. La via immacolata di Maria conduce a Cristo, in Lei non vi è notte, in Lei non vi è peccato, in Lei sola splende un giorno senza fine.
Con questa consapevolezza gettiamoci affinché ci plasmi. È questo l’invito che proviene dalle pagine di Madre degli apostoli: a Maria fonte della consolazione chiediamo che ci sostenga nell’annuncio, rinnovato e rinnovante, di Cristo al mondo.
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