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Recensione a “il Dio della fede il Dio dei filosofi”

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Recensione a “il Dio della fede il Dio dei filosofi” di J. Ratzinger, ed Marcianum Press 2007.

19 agosto 1662 il solitario Blaise Pascal muore, lasciando incompiuta un’apologia del Cristianesimo oggi nota come “i Pensieri”. Avvinto al suo cuore viene ritrovato un foglietto, ormai liso e ingiallito dal tempo, al quale è affidato il fulcro del suo messaggio. Sono alcune brevi parole che contrappongono il Dio dei filosofi e degli scienziati, posseduto nel concetto, a quello della fede, invocabile nella preghiera: il solo che, pur potendo talora nascondersi ed essere perduto nei marosi del esistenza, sia in grado di infondere pace e gioia.

Già a questo livello parrebbe profilarsi l’antitesi tra un Dio di Qualcuno: di Abramo, di Isacco di Giacobbe; e un Ente astratto, unicamente capace di assicurare l’esistenza e l’ordine del Mondo. Un Dio, questo, che può si essere cercato, ma non chiamato per nome; si attinto con la sola intelligenza, ma non invocato con il cuore.

Scorto nei fratelli, capace Egli stesso di porsi sulle tracce del uomo fino a farsi Uomo, il Dio di qualcuno inonda l’animo pascaliano di un grato stupore, dal quale le ricerche matematiche e naturalistiche lo avevano tenuto lontano. Quella appena descritta parrebbe essere una frattura polare, su cui, secoli dopo nel 1959, tornerà a riflettere un giovane teologo bavarese Joseph Ratzinger nella sua prolusione al università di Bon:

il Dio della fede e il Dio dei filosofi”.

Il prof parte sempre da quello stesso foglietto, ma, sorprendentemente nella sua riflessione, la cesura non pare più cosi netta, ricompresa in quella dialettica cattolica del et et, che rappresenta, già in queste attualissime pagine, un elemento di originalità di colui che diverrà l’autore di “introduzione al cristianesimo”. Una riflessione che, in pochi tratti, individua alcuni snodi ermeneutici fondamentali, ma che soprattutto con un linguaggio sorprendentemente semplice, si immerge nelle abissali profondità di questa problematica cruciale.

Ancor più sorprendentemente è nello stesso Pascal che viene rinvenuta la soluzione al dilemma posto dal foglietto con la netta affermazione della priorità del così detto spirito di finezza, capace di scandagliare l’etica e la fede; su quello di geometria, irretito in questioni penultime che, al pari delle futili distrazioni, eludono la vera domanda dell’uomo. Tanto dal punto di vista storico, quanto, ancor più profondamente, da quello esegetico Ratzinger giustifica, senza misconoscerne i limiti, l’appropriazione creativa operata dai Padri della chiesa e dai successivi pensatori scolastici di categorie filosofiche elleniche opportunamente rivisitate.

In un simile orizzonte la tesi del teologo riformato Bruner che implica una radicale alterità tra il Dio filosofico e quello biblico, il solo capace di darsi un nome pregno di mistero, è rifiutata, nonostante il suo indubbio fascino. L’autore protestante vede nella traduzione greca dei 70 di ES. 3,14 .un cedimento a categorie di ordine metafisico, tali da oscurare le precipue caratteristiche del Dio biblico, ingabbiandolo nelle parole umane proprie della filosofia ellenica.

Dell’impostazione di Bruner il futuro Benedetto XVI accetta unicamente la centralità in ambito scritturistico del problema della nominabilità di Dio, ultimamente riconducibile al concetto di Persona; mentre ricusa l’idea, ripetuta anche di recente, di una progressiva ellenizzazione del Cristianesimo, alla quale contrappone la posizione di Tommaso d’Aquino.

Secondo questo pensatore il Dio dei filosofi e quello della religione coincidono pienamente:

la teologia naturale non ha un contenuto più alto di quella filosofica essendo la filosofia una delle più elevate attività concesse allo spirito umano. Il Dio filosofico e quello della fede, invece, sono si in parte diversi, ma non opposti. La Rivelazione, infatti perfeziona, o in taluni casi svela, verità che la ricerca umana può intuire, pur se oscuramente. Tesi solo apparentemente astratta, se pensiamo che su questa Terra noi pregustiamo nel mistero della fede le realtà escatologiche, alle quali – osiamo sperarlo – accederemo un giorno nella diafana chiarezza della visione.

Del resto, anche in ambito pre- Cristiano, il concetto filosofico di Dio dovette comunque confrontarsi con quelli propri della sfera cultuale, elaborando, con lo Stoicismo, sia una teologia mitica e civile che abitava lo spazio della ritualità pubblica; sia una teologia naturale il cui proscenio era il cosmo stesso. E’ però nel cuore
stesso della fede biblica che il giovane teologo bavarese scorge un graduale cammino verso il monoteismo: anche qui, simile a un palombaro, l’autore si immerge nelle tematiche, scompagina contrapposizioni scontate, quelle di chi nuota a pelo d’acqua, rivelando soluzioni inaspettate a problemi anticamente attuali.

Così, solo per fare due esempi, il monoteismo è costitutivamente affermato non tanto nella superficiale consapevolezza che Dio sia uno, ma in quella profonda che Egli si sia reso appellabile. Per questo, da che Egli si è fatto conoscere anche il volto di un orfano di una vedova – oggi diremmo di un disoccupato o di un migrante – me lo possono rivelare. Un cammino iniziato già nell’Ebraismo post esilico, che, rammentando la perdita della patria, ripensò il concetto stesso di creazione, come radicale alterità rispetto agli Dei delle nazioni.

Non meno sconvolgente risulta l’approfondimento Ratzingeriano sulla natura del politeismo:

qui non si tratta tanto della consapevolezza, parimenti superficiale che gli Dei siano molti, quanto di quella desolante della Loro inaccessibilità alla ricerca umana. Per questo motivo le teologie politeistiche ritenevano attingibili unicamente le immagini del divino sia che fossero ombre nella Caverna platonica, sia che consistessero in arcaiche teogonie poetiche.

Se è con l’Ebraismo che Dio diviene nominabile, è solo con il Cristianesimo che Egli, non già la Sua idea, risulta universalizzabile, tanto da rendere legittimo il confronto, non sempre sereno, con la filosofia greca. I Padri quindi non fecero entrare nel Cristianesimo qualcosa di costitutivamente estraneo alla sua mentalità, ellenizzandolo, ciò nonostante, va riconosciuto alle teologie evangeliche che in questa creatività rielaborante vi furono talora ingenuità semantiche e concettuali, assegnando il medesimo senso a termini uguali usati in contesti diversi.

Per questo, in chiave ecumenica, riprendere quel foglietto apparentemente antifrastico lasciato nel suo cuore solo fisicamente inerte da Pascal, può divenire anche un rinnovato punto di incontro tra riflessione cattolica e mondo riformato, come lo stesso autore auspica conclusivamente. Leggere questo testo equivale a entrare non in una cattedrale, ma – osiamo dire – in una cappella del pensiero: qui, in un atmosfera più intima e raccolta ci stupiamo di come, analogamente a quanto accade nella scolastica aurea, le questioni siano già distinte e approcciate con un nitore reso ancora più lucente dal rigoroso ordine del esposizione.

Stupisce anche la sua capacità anticipatrice di tematiche che Joseph Ratzinger affronterà i compiutamente in opere mature, come documenta la lunga e appassionata postfazione di Massimo Epis che chiude il volume.
Contro ogni esclusivismo integrista, anche quello proprio di chi espunge tutta la ragione dall’orizzonte della fede, l’autore rammenta che costitutivo del Cristianesimo è il dialogo consapevole con quanto avvenuto prima o al di fuori degli schemi da cui è sorto.

A qualche lustro dalla redazione di queste pagine, mentre la cattolicità si apre a un mondo non più solo occidentale, il testo rappresenta una sfida ancora valida che, senza confondere gli ambiti, consenta un dialogo aperto tra il Dio di qualcuno e quello cercato, a tentoni ,da non pochi. Il Cristianesimo infatti appare
nuovamente chiamato, proprio dalla sua scaturigine trinitaria, a comprendere la cruciale domanda
sui rapporti tra il suo Dio e quello filosofico, oltre le assimilazioni frettolose e i rifiuti aprioristici.

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