Recensione a : Joseph Ratzinger , Io credo ed. San Paolo 2017 di Alessio Conti.
Viaggiare con Cristo, nell’intimità stessa di Dio, gustando le primizie di una vita avvolta nella Sua Grazia: dall’incorporazione alla Chiesa, avvenuta con il Battesimo nella Pasqua del 1927, all’adsum dell’ordinazione sacerdotale, salutato dal canto di un’allodola nella mite estate bavarese del 1951 quando Joseph Ratzinger rispose definitivamente a Gesù che lo aveva chiamato; fino ad alcuni testi del suo magistero petrino.
È l’intensa esperienza in cui può essere coinvolto il lettore di “Io credo. Le pagine più belle di Papa Ratzinger sulla fede cattolica” un libro in cui, tra squarci di inatteso lirismo e spunti di una raffinata esegesi che l’attività pastorale rende più comprensibile – pur senza scalfirne l’inarrivabile profondità – a raccontarsi è un’esistenza interamente immersa nel mistero Pasquale. Ancor prima di divenire figlio di Dio: con la sua nascita nel sabato santo, questo bimbo pareva preconizzare – da un piccolo Villaggio bavarese – i destini dell’umanità. Sì, perché il sabato non è la festa ma la sua attesa, non l’esultanza piena, ma quella a noi qui possibile, come alla creazione tutta, la quale pure paolinamente geme travagliata da doglie presaghe del settimo giorno. Quell’umanità, redenta dal Cristo, che avrebbe guidato – umile lavoratore nella vigna del Signore – alla consapevolezza di non essere sola, perché abitata da una luce fioca, sì, ma ancora capace di rischiarare.
Credo-amen: aperta e chiusa da queste due brevi parole, entrambe indicanti assenso, la professione di fede è stata da sempre il fulcro dei molteplici interessi dell’autore di queste pagine: oltre la stantia ripetizione, cosa significa Credo? Si tratta di una parola-scrigno che, al pari del termine essere in filosofia, dischiude una polisemicità tanto più straordinaria perché inavvertita. Credo può infatti voler dire: accogliere qualcosa nelle proprie convinzioni, prestare fiducia a qualcuno, essere certi. In questo senso antropologico possiamo credere a una persona, a un’idea politica, all’indicazione di un cartello stradale.
Quando però la enunciamo all’inizio della professione di fede, questa parola assume un valore diverso: significa accogliere ed affermare il senso che ci sostiene alla stregua di un terreno solido o, se preferite, di un firmamento che resta immobile mentre tutto gira attorno e in lui stesso. Questo fondamento – non fatto da noi – può essere solo ricevuto: la fede cristiana crede in Qualcuno e progressivamente cammina verso di Lui. Anche la parola Amen riprende dall’Oriente semitico lo stesso concetto: il poggiare su una base salda, l’aderire, l’obbedire. Il credere è certo un dono, quello di Dio che ci si rivela parlandoci come ad amici, ma implica, e qui torna la polisemicità da un altro versante, anche un impegno: quello, scolpito nel Catechismo della Chiesa Cattolica, di rispondere alla Rivelazione. Per questo la fede è atto personale: non si può credere per un altro, a ciascuno nella sua irriducibile libertà è affidata la possibilità di dire: “Io Credo in Dio”, e di suggellare questa affermazione con un “amen”.
È Abramo l’archetipo di questa fede per lei, come indicato dall’autore della “Lettera agli Ebrei”, il Patriarca partì senza sapere dove andava verso un luogo che avrebbe dovuto ricevere in eredità, per lei soggiornò nella Terra Promessa come se fosse una regione straniera abitando sotto le tende, per lei ancora, come aggiunge San Paolo nella “Lettera ai Romani”, sperò contro ogni speranza, essendo il buio della sua stessa vita illuminato da una parola, rischiarato da una promessa. Così divenne non solo il primo testimone di quella fede che si compirà in Cristo, ma anche il padre di molti credenti. Pure noi siamo chiamati a partire affinché sempre più la storia sia abitata dalla pienezza di quella luce che non conosce occaso; siamo provocati – è Benedetto XVI che scrive, si badi – a uscire dalle nostre certezze in quanto deboli eredi di una promessa: nell’Eucarestia, segno della nuova alleanza, Cristo assicura una duplice, circolare unità.
Egli infatti verticalmente ci attira tutti a se ma, e questo è il paradosso, proprio la dimensione ascendente suggella solidamente l’unione reciproca dei diversi fedeli. Per questo, pur senza rispolverare una vecchia disputa teologica, l’autore raccomanda di non abusare dell’Eucarestia, cioè di non dissolverla in un vincolo solo orizzontale. Allo stesso modo l’intima relazione che Gesù ha con il Padre presentataci dall’Evangelista Luca nell’episodio del Battesimo nel Giordano ci assicura che Egli con la Prima Persona della Trinità ha parlato non solo di sè ma anche di e per ciascuno di noi.
E ha detto Lui, Verbo, una sillaba per ogni debole, povero, dimenticato, scartato, per lo sfiduciato cui la Scrittura stessa ricorda di indirizzare una parola. Da questo punto di vista è semplicemente struggente l’appello di Federico, un detenuto nell’infermeria della Casa Circondariale di Rebibbia che chiede, anche a nome dei suoi compagni come lui malati e sieropositivi,di essere presente nelle preghiere e nel grande cuore del Papa. “Noi, aggiunge, siamo caduti e nelle nostre cadute abbiamo fatto male ad altri, ma vogliamo rialzarci nonostante spesso sentiamo parlare di noi solo in modo feroce e assieme alla libertà ci viene tolta anche la dignità tanto che, quando ciò accade, ci percepiamo come subumani”. Da questo desiderio di rialzarsi muove la risposta del Santo Padre che assicura come nella famiglia papale composta da quattro suore laiche si parli spesso in modo positivo dei carcerati con cui sovente avvengono reciproci scambi di doni.
Federico certo è caduto, ma non è la sua caduta: anche chi ne parla lo deve rammentare, facendolo sempre in modo umano. Oltre le contrapposizioni manichee Benedetto XVI abitava discretamente le periferie sia geografiche sia esistenziali, perché la Chiesa le conosce da secoli. Rialzarsi , si diceva, in certo modo rinascere grazie a una cerimonia intimamente trinitaria, il Battesimo cristiano, strutturalmente aperto all’ azione di Dio capace di adottare, come suoi figli, i bimbi, antecedentemente nati da genitori secondo la carne.
Anche quello di Giovanni – il più grande tra i nati di donna – è un battesimo umano dominato quindi dal desiderio antropologico di raggiungere Dio stesso, essendone lavati e purificati. Nel primo Sacramento Cristiano invece a farcisi incontro è direttamente quel Padre che non ci chiamerà più servi, ma figli ed amici. L’umanità di Ratzinger dedica all’amicizia, nobilitata già nel mondo classico, parole sublimi: la filìa è una comunione del pensare e del volere, il Signore ci dice la stessa cosa con grande insistenza: è quel pastore che conosce le sue pecore, chiamandole per nome. Per questo io non sono per lui un essere anonimo, sperduto nell’immensità dell’universo, mi conosce personalmente e io lo conosco. Per quanto misera e debole possa essere la mia vita, per quanto possano esitare i miei passi e tremare la mia voce, Lui mi conosce ed io Lo conosco. Ecco le radici Ratzingeriane – ma direi da sempre cattoliche – di quella che, con felice espressione, Papa Francesco ha definito “cultura dello scarto”. Radici che fruttificano in scuole, dispensari, opere di misericordia cattoliche, cioè universali.
Come la fede, anche l’amicizia rappresenta in pari tempo, un dono e un impegno: Dio mi regala la Sua amicizia e io mi impegno a conoscerlo sempre più nella Parola, nei Sacramenti, negli stessi fratelli. Oltre che conoscenza – lo abbiamo detto – l’amicizia è comunione del pensare e del volere: in questo senso la mia volontà deve crescere aderendo a quella dell’Altissimo che non mi è esterna o peggio estranea: quello del Creatore è un volere che mi inabita e io mi conformo a questa inabitazione facendo mia la sua volontà.
Nell’amicizia cristiana vi è poi un ulteriore elemento: il Signore dà la vita per me. Nella sua sequela la mia vita stessa non mi appartiene più: è per Lui e, in Lui, per ogni altro. In questa vertigine spirituale, mentre l’aria si rarefà e lo stesso respiro sembrerebbe venire meno, è la preghiera a soccorrerci: “Aiutaci, Signore, a non volere noi stessi, a conformarci alla tua volontà, a essere sempre più Tuoi amici, ad amare in Te i fratelli”. Tra i tempi forti dell’anno liturgico ne esiste uno privilegiato che, muovendo dal deserto della nostra povertà ci invita a rinsaldare questo vincolo amicale con Dio: la Quaresima.
Questa si configura come un pellegrinaggio verso Colui che rappresenta la fonte della misericordia: l’Onnipotente ci sostiene anche se, come il salmista, “camminiamo in una valle oscura”, mentre il tentatore ci induce a disperare o, che è lo stesso, a confidare in piccole speranze costruite dalle nostre mani. Ci rinfranca anche la consapevolezza che il grido delle moltitudini povere ed affamate è udito da Dio: pur se nella desolazione della miseria, l’Altissimo non permette che il buio dell’orrore spadroneggi, vi è infatti un limite che Egli ha posto al male: la Sua stessa misericordia.
Il Papa ripropone il digiuno, l’elemosina e la preghiera come mezzi efficaci per vivere il cammino quaresimale nella valle oscura della nostra povertà, abitata anche da un’altra forma di indigenza – stigmatizzata da Santa Teresa di Calcutta – quella di chi ignora Cristo perché chi “non dà Lui dà troppo poco”. È infatti solo lo stare del Risorto con i suoi discepoli che ridona loro vigore. Le Sue parole “non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore” risuonano anche nella nostra vita, minacciata dalla malattia o ferita dalla precarietà, offesa nel suo sorgere o nel suo declinare. Altro tempo forte della Liturgia è il Natale: qui, come sottolineato nell’omelia dell’anno 2012 riproposta nel testo, Gesù stesso si fa bambino proprio perché di fronte a una divinità trionfante l’uomo avrebbe potuto avere la tentazione di affermare se stesso. Per questo Egli viene come debole ed inerme, ponendo così la questione di tutti i deboli e gli inermi della terra.
Ciò che colpisce di questa magistrale omelia è la capacità di valorizzare particolari che parrebbero quasi dimenticati nella narrazione evangelica. È questo il caso della Parola secondo cui per la Santa Famiglia “non c’era posto nell’alloggio”. L’uomo è continuamente riempito di se stesso e così non fa spazio ne a Dio ne agli altri. Riconoscere l’Onnipotente nei poveri e negli emarginati non è qui sforzo filantropicamente titanico, ma la bellezza disarmata e disarmante capace di sgorgare da una mangiatoia, da un vagito,da un pianto che ci chiede, in Lui, di non dimenticare chi oggi piange. Non si tratta solo di singole persone, ma anche di intere zone geografiche, prima fra tutte proprio il Medio Oriente, terra benedetta e sofferente che “fu misurata dai Patriarchi e dai Profeti,servì da scrigno dell’Incarnazione del Messia, vide innalzarsi la Croce del Salvatore, fu testimone della Resurrezione del Redentore e dell’effusione dello Spirito Santo. Percorsa dagli Apostoli, da santi e numerosi Padri della Chiesa, fu il crogiolo delle prime formulazioni dogmatiche”.
Oggi, a causa del peccato adamitico che prosegue nel fratricidio di Caino, questa terra geme, tanto che la pace agognata diviene, in più culture, un saluto. Lo sguardo si dilata poi all’immenso continente africano che conserva il doloroso ricordo delle lotte fratricide tra le etnie, della schiavitù e della colonizzazione. Come l’uomo incappato nei briganti questa parte di mondo ferita è abbandonata lungo la strada. Una tradizione sorta ad Alessandria d’Egitto, quindi nel suo stesso seno, individua in Gesù il medico capace di lenire le cicatrici del corpo e dello spirito. In una simile prospettiva il Papa rinviene numerosi segnali di speranza per i paesi africani che, pur se travagliati, mantengono nell’accoglienza delle nascite la gioia di vivere custodendo un ricco patrimonio religioso e culturale.
Valicato il Mediterraneo viene ripresa l’immagine, cara a San Giovanni Paolo II, di un’Europa capace di respirare con i suoi due polmoni, quello Occidentale latino e quello orientale greco e slavo. Rammentando il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma, Benedetto XVI individua un primo rischio: quello che il Vecchio Continente, visto il persistente inverno demografico, si avvii mestamente verso il “congedo dalla storia”. Una condizione questa, che oltre a mettere a repentaglio il benessere economico, favorisce un pericoloso individualismo, disattento alle esigenze del futuro.
Dal punto di vista etico e filosofico occorre che l’Unione Europea riconosca l’esistenza di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni per tutti gli individui. Più in generale, sempre dal punto di vista delle tendenze culturali, il Magistero di Benedetto XVI nota la progressiva rinascita, dapprima in Occidente e successivamente in altri contesti, di un Illuminismo radicale che, in un mondo interamente fatto da noi, rende più difficile credere, perché esclude Dio dall’orizzonte umano. Gli uomini non bevono più dalla fonte, ma ciò che viene imbottigliato è loro offerto: si vive così “come se Dio non esistesse” per una superbia della ragione che ritiene di bastare a se stessa. Nella speculazione filosofica si è ormai verificato uno slittamento da un pensiero teoretico a uno sperimentale che ha progressivamente emarginato la ragione come indagine su una verità ultima, arrestandola ad acquisizioni importanti sì, ma penultime.
La Chiesa non teme il progresso perché -come afferma l’ignoto autore dell’epistola a Diogneto – “non l’albero della scienza uccide, ma la disobbedienza”. Va invece stigmatizzato un modello che applica all’intero scibile le tecniche proprie della razionalità scientifica. Nella stessa ricerca teologica si pesca con una rete che consente di prendere solo pesci di una certa misura: ciò che eccede quelle dimensioni semplicemente non esiste. Irretita nello specialismo del dettaglio, questa tipologia di attività intellettuale che non di rado ha occupato l’accademia, risulta incapace di vedere la totalità abbracciando nella teoresi del pensiero panorami vasti e sconfinati.
Così a sfuggire è però il mistero la cui possibilità è programmaticamente esclusa in anticipo. È questa la ragione dei sapienti cui si contrappone evangelicamente quella dei piccoli che nell’umiltà si apre all’agire di Dio dilatandosi alla comprensione della verità stessa.
L’Europa richiama anche la complessa questione delle migrazioni: spesso animati da fede e speranza, molti espatriano per costruirsi una vita migliore, essendo impossibile sopravvivere nei paesi d’origine. Di una simile speranza fa parte anche la consapevolezza che Dio non abbandona le sue creature nonostante debbano fronteggiare le amare sofferenze dovute allo sradicamento e alle violenze subite. Oltre il mero assistenzialismo va favorita la vera integrazione dei migranti in una società in cui tutti siano membri attivi e responsabili.
Il Concilio Vaticano II ha sancito nella Costituzione pastorale “Gaudium et Spes” n.65 il fondamentale diritto della persona a emigrare inteso come facoltà di stabilirsi dove ritiene più opportuno, in vista di una piena realizzazione delle proprie capacità. Nell’attuale contesto sociopolitico va però anche prioritariamente affermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra, che va reso effettivo sia con la destinazione universale delle ricchezze, sia tenendo sotto controllo i fattori che favoriscono l’espatrio. Fa quindi costitutivamente parte del diritto a non abbandonare il proprio Paese natale la tensione etica verso la costruzione di un mondo più giusto in cui ricchezze ed opportunità siano ripartite in modo meno diseguale.
La lettura unilaterale che un certo populismo ha operato della posizione di Ratzinger va quindi rigettata: per lui infatti, l’Europa come non è uno spazio vuoto da”invadere” così non è una “fortezza “ da difendere. Più che a un fidente pellegrinaggio le odierne migrazioni somigliano a un calvario, le cui vittime sono spinte a partire da: precarietà economica, mancanza di beni essenziali, conflitti e catastrofi naturali.
Un proficuo rapporto con questo fenomeno prevede sia per chi accoglie, sia per chi viene ospitato, diritti e doveri: se chi accoglie è chiamato ad offrire ai migranti una vita dignitosa, chi giunge deve essere rispettoso dei valori costitutivi delle società in cui soggiorna.
Proprio perché abitato da una forte attenzione al contesto sociopolitico mondiale, il testo appare pervaso da una tensione verso un’integrale riscoperta del messaggio cristiano. Da questo punto di vista va ribadito il triplice compito della Chiesa: annunciare la Parola di Dio, celebrare i Sacramenti e operare la carità. Un compito che la comunità dei fedeli cerca di adempiere consapevole dei non pochi limiti umani di alcuni suoi membri, affidandosi alla Vergine Maria, umile donna di provincia eletta a dimora in cui Dio stesso trova il Suo riposo. Lei è il germoglio che nel cuore della notte invernale della storia spunta dal tronco abbattuto della Stirpe di Davide. In Lei si compie la parola del Salmo “la terra ha dato il suo frutto”. Guardando a Lei anche il nostro mondo, per molti aspetti ferito, può germogliare ancora.
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