Recensione a Francesco D’Assisi di Franco Cardini, ed. Mondadori 2020
Sorella Allodola
Messaggera del mattino, amante della luce, l’allodola annuncia, nella poesia medioevale, il commiato degli innamorati Il suo canto si levava nella sera del 3 ottobre del 1227 mentre Francesco nasceva al cielo, lasciando orfana la terra, muti ed attoniti i suoi primi compagni, per vivere nelle rielaborazioni biografiche E pittoriche, che ogni epoca gli ha tributato.
La sorella allodola, che il poverello amava, ha un cappuccio, proprio come un religioso, vaga nel cielo, cantando le lodi del signore e, anche se un chicco di grano fosse stato immerso nel letame, lo avrebbe preso, sentendosi interamente affidata alla provvidenza di quel Dio che nutre gli uccelli del cielo e fa fiorire i gigli del campo.
Francesco tra iconografia e poesia
L’opera di Franco Cardini “Francesco d’Assisi” si libra agilmente tra le varie fonti, coeve e posteriori, cantando, proprio come la sorella allodola, le lodi di un Santo mai prigioniero di una delle tante letture unilaterali – per questo impoverenti – che ne sono state offerte neppure di quella bonaventuriana, capace di scalzare tutte le altre presentandoci un Francesco sempre obbediente alla Chiesa.
Così l’Assisano normalizzato di Giotto o della prima vita di Tommaso da Celano, convive con quello più libero della seconda biografia di quest’ultimo e dello stesso Alighieri che celebra le sue nozze mistiche con madonna povertà attingendo anch’egli a una gloriosa tradizione.
Se l’iconografia artistica si limita a discettare sulla presenza o assenza della barba nelle raffigurazioni del Santo, il novero delle possibilità appare assai più variegato: si va dal ipercattolico al antesignano del laicismo, dal ecologista terzomondista al occidentalista radicale fino a quel archetipo della santità italiana di cui si servì una certa retorica fascista anche per favorire la conciliazione tra Stato e Chiesa.
Francesco che avrebbe voluto cappelle spoglie è oggi onorato in uno dei templi più belli d’Europa; lui che prediligeva il Vangelo sine glossa, diffidando del sapere teologico vedrà i suoi frati invadere l’università; lui che, secondo le poche fonti storiche attendibili, non amava le cerimonie, è annualmente riverito da capi di stato di tutti i continenti.
La guerra e l’ecologia, di cui spesso a proposito del poverello oggi si discorre, non erano problemi avvertiti dalla società umbra del 200: la prima, infatti, si risolveva in un torneo in cui il nemico andava disarmato e catturato più che ucciso per essere poi riscattato dalla famiglia, proprio come avverrà al futuro santo; la seconda, in un’economia agricola in cui l’uomo contendeva alla natura terreni coltivabili, non costituiva una priorità.
Come la guerra non era un flagello – si stimava più pericolosa una caduta da cavallo o il rischio di contrarre il tetano – così il pacifismo non era un valore; come l’ecologia non era un problema, così l’ideologia ambientalista, diversa dalla cura del Creato, non rappresentava una risposta a interrogativi sostanzialmente assenti. L’opera di Cardini sfata alcuni luoghi comuni, come quello secondo cui il nome del poverello derivasse dai panni commerciati dal padre nei suoi frequenti viaggi in Provenza: al secolo Giovanni, fu soprannominato Francesco dai suoi compagni di sollazzi giovanili, appartenendo ad una famiglia tanto agiata da poter fare la guerra, ma non nobile.
Altro merito del medioevalista toscano è quello di inserire l’eccezionale figura del autore del cantico di frate sole nella società umbra del 1200 senza proiettare su di lui le esigenze di epoche successive. Proprio questa storicizzazione rende la lettura intrigante perché non traspone francesco nel nostro mondo, ma noi nel suo, in una vicenda che la scarsezza e la parzialità delle fonti obbligano a nutrirsi anche di fantasia.
I luoghi di Francesco e la società del primo duecento
Nel territorio posto alle pendici del monte Subasio, un clima mite favoriva la coltivazione della vite, dell’olivo, degli stessi cereali, ma, complice la natura, del suolo i raccolti erano comunque scarsi, ragione per cui, tramite un duro ed ingrato lavoro, occorreva sottrarre alla montagna da un lato e alle malsane paludi dall’altro, sempre nuove porzioni di terreno da coltivare.
Proprio per questo gli assisani non amavano gli uccelli che mangiando le sementi sottraevano loro una preziosa fonte di cibo, come detestavano girovaghi e mendicanti – apparentemente avversari dell’operosità monastica- in una società non povera – carestie e pestilenze punteggeranno il secolo successivo- ma in cui i diversi ceti che si andavano formando convivevano gomito a gomito, mentre una nobiltà declinante tentava di sbarrare il passo alle famiglie emergenti come quella del nostro Santo.
Amare gli uccelli, per il poverello di assisi, voleva dire aderire profondamente a una vocazione alla marginalità: oltre le lotte tra il Sacro Romano Impero d’Occidente nella cui orbita la cittadina umbra gravitava, tanto che il futuro Federico II vi venne battezzato, il papato che considerava da secoli quelle terre come proprie, e le nascenti autonomie cittadine, con le relative discordie civili, di un luogo Assisi, stretto tra centri più importanti di lui. Primeggiava allora Spoleto, di cui il borgo posto alle pendici del Subasio era possedimento, Perugia, contro cui nei primi anni del nuovo secolo guerreggerà aspramente, la stessa Marca Anconetana, strategica per i commerci.
La guerra con Perugia
Proprio il conflitto con Perugia muterà la vita del futuro Santo che, catturato nella battaglia di Collestrada 1202 trascorse circa un anno in cattività – persino in prigione non perse il suo spirito giullaresco- ma al suo ritorno ad Assisi – anche a causa di una lunga malattia – qualcosa in lui era mutato. Lo attendeva una guerra interiore con le sue paure, da quella ancestrale dei lebbrosi, condivisa con tutta la sua epoca che credeva contagioso quel morbo, a quella dei mendicanti, esorcizzata, fin da giovane, con laute elemosine.
L’incontro con il lebbroso, l’elemosina e la strada
E proprio l’elemosina, che i membri della fraternità francescana saranno chiamati a guadagnarsi con lavori manuali o servizi ingrati, differenziandosi così da girovaghi e vagabondi, rappresenterà un elemento fondamentale della vocazione del poverello, come lo sarà la strada, scenario di una vita mobile, diversa sia dalla stabilità benedettina, sia dal legame con il territorio proprio del clero secolare.
Un giorno, mentre insoddisfatto della solita vita continuava a condurla, un Lebbroso gli si fece incontro: Francesco era in sella al suo destriero e il primo pensiero fu quello della fuga. Ogni malato rappresentava, nella mentalità veterotestamentaria che il Medioevo aveva ereditato, un peccatore, ma il lebbroso lo era più di altri: quando mendicava doveva suonare una campanella, affinché le persone si scansassero, viveva relegato in lazzaretti fuori città, assai diffusi visto che se ne contavano ben tre nei dintorni di Assisi.
Vestiva di stracci neri contrassegnati da distintivi gialli o rossi. Francesco non fuggì davanti a uno spettacolo tanto ripugnante, ma, deciso a trasformare le cose amare in dolci, abbracciò e baciò il malato, porgendogli del denaro. Un abbraccio che, come il viaggio a Roma in cui scambiò i suoi abiti con quelli di un mendicante, diverrà simbolo della sua nuova vita. Da ora in poi sarà lui stesso a questuare, inizialmente in francese per la vergogna.
Il crocifisso di San Damiano : rielaborazioni pittoriche e biografiche
Deposta l’armatura, fallita una spedizione in Puglia in cui si preannunciavano glorie cavalleresche, il Santo intendeva riparare i guasti che i suoi concittadini fingevano di non vedere: in nome di quel crocifisso che, secondo un noto schema agiografico, gli aveva parlato nella diroccata Cappella di San Damiano, restaurata forse con i proventi della vendita di beni paterni.
Non era però questo-stando almeno alla legenda dei tre soci biografia non ufficiale e quindi più attendibile che il Cristo gli chiedeva – occorreva una radicale riforma della Chiesa, non nei suoi edifici, ma dalle sue fondamenta. Particolare questo accuratamente taciuto sia da Bonaventura, sia da Tommaso da celano, perché ammettere un profondo bisogno di emendazione ecclesiastica, avrebbe significato dare ragione a quelle pericolose sette ereticali che lambivano l’esperienza dell’assisano e da cui il minoritismo, vittorioso sul francescanesimo, voleva distinguerla radicalmente.
Anche per questo, nelle biografie come nelle pitture ufficiali, il Serafico Padre non è mai solo: è sempre un prete, segno della gerarchia, ad autenticarne la missione, nonostante spesso sia relegato sullo sfondo, analogamente a quanto accade nella giottesca rinuncia alle vesti.
Pietro Bernardone: una figura da ripensare
Dalla biografia di Cardini trapela un Francesco inedito, libero sia dalla disgrazia di risultare popolare, sia da alcuni cliché primo fra tutti quello di un padre Pietro Bernardone freddo e calcolatore, proteso ad affermare il prestigio famigliare leso da quel figlio apparentemente anarchico e sognatore. Certo, il mercante che probabilmente prestava soldi a usura non comprendeva quel suo girovagare mendicando: se non voleva divenire più cavaliere, il futuro Santo avrebbe potuto entrare nei canonici regolari, o in ordini prestigiosi, quindi utili alla causa della stirpe come quello Benedettino, senza esporsi- novello giullare di Dio-al ludibrio dei suoi concittadini.
La Porziuncola la conversione e il saio
Ormai, però il dado era tratto: partecipando alla Messa nella chiesa della Porziuncola, sarà un passo evangelico ad indicargli la via. Gesù ingiungeva di dare gratuitamente ciò che gratuitamente si era ricevuto, di non portare: oro, denaro, cinture, calzari ,bastone augurando la pace a chiunque si visitasse. Realizzato in lana grezza, cinto da un’umile corda con 3 nodi che Dante chiamerà capestro, forgiato alla stregua di una croce a forma di Tau, il saio, vestimento tradizionale dei contadini diverrà simbolo della radicalità francescana. Eterno viandante, chi lo indossava non aveva alcun contrassegno ecclesiastico, e a differenza dei chierici i discepoli del Serafico Padre non predicavano, sempre per prendere le distanze da Albigesi e Poveri di Lione, cui lo stile di vita pericolosamente li avvicinava. I suoi primi compagni pur avendo scelto l’emarginazione, non erano degli emarginati: alcuni provenivano dalla nobiltà assisana altri, come Pietro Cattani, dal clero secolare, tutti, avvinti dal carisma della Fraternità, decisero di mutare vita.
Francesco e Innocenzo III: tensioni politiche e problemi religiosi
Se, come detto, la via è la cifra della nuova spiritualità non stupisce che, già agli inizi di questa esperienza, i frati cominciarono ad andare in missione in coppia, prima in Umbria, poi a Firenze, in fine, in 12- numero dal evidente valore simbolico- a Roma, per ottenere da Innocenzo III l’approvazione della loro evangelica forma di vita. Ancora una volta, solo svincolandoci dagli stereotipi giotteschi- primo fra tutti quello dell’uomo apparso al pontefice in sogno mentre puntellava la cadente Basilica di san Giovanni in Laterano- tramite una sinossi di notizie disseminate nelle varie fonti, possiamo ipotizzare che questo primo incontro con il Successore di Pietro non fu privo di difficoltà. Anche prescindendo dai rapporti con il Vescovo Assisano, Francesco non era notissimo e forme di vita simili alla sua, sia in ambito ortodosso, sia soprattutto in ambienti ereticali erano diffuse: il Papa aveva problemi più urgenti: politicamente doveva evitare l’unione della corona del sacro romano impero con quella dell’”Italia” meridionale. Vi era poi la questione della Terra Santa sul punto di cadere in mano degli infedeli, anche per le divisioni nel movimento crociato, sempre più preda degli interessi delle Repubbliche marinare.
Dal punto di vista religioso il catarismo con il suo assoluto disprezzo della natura e le varie tendenze ereticali dai Valdesi, ai Poveri Lombardi, pur rappresentando la comprensibile esigenza di un ritorno all’originaria indigenza della Chiesa, minacciavano alcuni capisaldi della sua religiosità : dal culto dei santi a quello delle immagini, dai sacramenti- tranne Battesimo ed Eucarestia- alla devozione per le reliquie. Anche la nascente Fraternità francescana apparteneva a questo fermento di novità che agitava l’ecumene cristiana: tuttavia i suoi membri a differenza dei valdesi e dei catari, detti anche Albigesi, non predicavano mai contro il clero. Personalmente il poverello fu intransigente soprattutto nei confronti di se stesso e, in misura minore perché temperata dalla misericordia, dei suoi compagni.
Approvazione orale della prima regola oggi perduta
A Roma l’assisano riuscì ad ottenere dal pontefice l’approvazione della sua regola, un testo che però non ci è pervenuto ma che verosimilmente doveva essere, come quelle successive che invece ci sono giunte, modellato sui consigli evangelici. In cambio della ratifica ecclesiastica, alla quale però non seguì un formale documento scritto , l’assisano dovette accettare per i suoi frati la tonsura, segno di appartenenza all’ordine dei chierici: Francesco, per parte sua, restò sempre un laico, dedicando grande riverenza alle mani dei sacerdoti che, benché indegni, consacravano le specie eucaristiche.
Francesco e le crociate
Altro luogo comune sfatato dall’opera è la contrapposizione tra il messaggio “pacifista” dell’Assisano e quello “bellicista” tipico del movimento crociato. Una contrapposizione che facendo propri stilemi di epoche successive non tiene conto della mentalità di un uomo del primo 200: per lui la Crociata non era una guerra di religione, ma un pellegrinaggio in cui, in deroga rispetto alla normativa ordinaria, la necessitas consentiva l’uso delle armi.
Bandita da Innocenzo III che dovette fronteggiare le non poche discordie nel campo cristiano, la V crociata fu proseguita, con minore autorevolezza , dal suo successore Onorio III. La spedizione puntava a riconquistare Gerusalemme, attaccando la foce del Nilo per bloccare i commerci del Sultanato Egiziano. Il piano dei pellegrini in armi prevedeva un baratto tra la rimozione del blocco fluviale e la riconsegna ai Cristiani della Città Santa, ignorando però l’intrinseco valore di questo luogo per i fedeli di Allah che non se ne sarebbero facilmente privati.
Il Serafico Padre giunse sul suolo Africano nel 1219 mentre la spedizione era in fase di stallo: inesperti dell’idrografia dei luoghi i crociati erano decimati anche dalle epidemie. Chi partiva non si percepiva come coinvolto in una guerra di religione e, quindi, non avrebbe compreso l’atteggiamento di un Francesco che la avesse avversata, in nome d una concezione pacifica della missionarietà.
Anche per questo appaiono anacronistiche le polemiche attorno all’ assisano crociato: per quale ragione avrebbe dovuto opporsi a quella che ai suoi occhi era una peregrinatio, una visita devota ai luoghi in cui visse il Salvatore, un nuovo esodo, una marcia verso la terra promessa, intrapresa da uomini non meno peccatori e malati di altri, e per questo , bisognosi del medico, donde gli episodi di crudeltà, i saccheggi, le ruberie che in questa, come in altre imprese, non mancavano.
Il Poverello non contestò la spedizione per due motivi: il primo disciplinare perché se lo avesse fatto sarebbe venuto meno all’obbedienza alla Chiesa, e quindi alla sua principale differenza rispetto agli eretici che avevano predicato contro le crociate, subendone in prima persona le conseguenze; il secondo spirituale perché la spedizione cui l’assisano partecipò era figlia prediletta della sede apostolica, essendo stata bandita dal Successore di Pietro.
La stessa percezione dell’ Islam era anfibolica: da un lato predicatori e pellegrini dipingevano i Mussulmani come persone feroci e crudeli, dall’altro la tradizione cavalleresca vedeva nell’Oriente il luogo dell’esotico, del meraviglioso, dello straordinario. Anche al nostro Santo giunse l’eco di queste narrazioni policrome che avvolgono il suo atteggiamento nei confronti degli Islamici nella nebbia di un mistero non più scalfibile su cui le fonti, tardive e non sempre attendibili, non ci aiutano a gettare significativi fasci di luce. Questa stessa caligine ottunde la visuale dell’incontro con il Sultano che accolse benevolmente il pellegrino tanto più che questi, contrariamente a quanto sostenuto da Bonaventura, intendeva unicamente testimoniare la sua fede, senza voler convertire nessuno.
Questo atteggiamento resta scolpito anche in un istruttivo apologo boccaccesco secondo cui un re morendo lasciò tre anelli ai suoi figli chiedendogli di custodirli amorevolmente nonostante in uno solo di questi fosse presente una gemma di inestimabile valore: i gioielli simboleggiano le tre grandi religioni monoteistiche e sono il segno che la” tolleranza” non fu invenzione moderna, ma albergò anche nell’evo medio, naturalmente, al pari di ogni altra epoca, assieme ad episodi di crudeltà e ferocia che certo non mancarono. Appare indubbio che, irrorata anche dalla presenza del poverello, la città gerosolimitana risulterà trasformata dalla sua visita: se, ancora oggi, perdura un’intenso rapporto tra quei luoghi e i Minori, icasticamente rappresentato dalla Custodia di Terra Santa.
Il ritorno ad Assisi
Francesco era ancora in partibus infidelium mentre da Assisi gli giungevano notizie di pericolose divisioni nella fraternità i cui numeri crescevano esponenzialmente. Si facevano strada due tendenze non in se negative, ma comunque capaci di snaturare l’originario spirito della costituenda Religio: la prima avvertiva la necessità di una regola più dettagliata rispetto alle brevi parole, esposte a Innocenzo III che le aveva approvate oralmente. La seconda, caldeggiata dagli stessi vicari del poverello, mirava, anche tramite prescrizioni alimentari, ad inserire nella vita della fraternità consuetudini proprie degli ordini monastici tradizionali.
Francesco che temeva il rigorismo ascetico di una simile opzione da cui sarebbe potuta derivare la superbia, stigmatizzata dagli stessi Padri della Chiesa, si affrettò a rifiutare il rigorismo alimentare, ingiungendo ai membri della fraternità di mangiare ogni cibo che gli fosse stato dato in cambio del loro lavoro. Anche da questo punto di vista La scelta del Serafico Padre fu quella di restare fedele a una rivoluzionaria radicalità evangelica, oltre che a se stesso, ritirandosi dalla guida dell’ordine, per non divenire una sorta di idolo da venerare. La sua luce si andava spegnendo, proprio mentre avvertiva la necessità di redigere una nuova regola.
Occorreva tenere accese le lampade in attesa dello sposo: il declinare delle forze fisiche portò il poverello a dettare non tanto un testo normativo, quanto alcune prescrizioni presentate nel così detto capitolo delle stuoie, probabilmente tenutosi nel1221. Si tratta di un testo di transizione-detto regula non bullata- in cui è sancito il divieto di ricevere denaro e l’obbligo, per ogni frate di lavorare, raccomandando una vita religiosa ortodossa, una particolare devozione eucaristica, oltre alla penitenza. Il Papa si limitò a un plachet orale, tanto più che, nella stessa famiglia religiosa, la regola suscitava discussioni: si giunse così a un ulteriore testo, approvato dal Pontefice nel 1223 e per questo detto regula bullata.
Strutturato in 12 capitoli questo canone attenuò alcune prescrizioni , prevedendo deroghe al divieto di chiedere denaro e circoscrivendo, solo ad alcuni frati, l’obbligo di lavorare. Varata nel capitolo della Porziuncola, questa terza raccolta di precetti, riaffermava , pur se attenuandolo, l’obbligo della povertà.
La povertà volontaria il presepio e il cantico delle creature
Ma cosa era l’indigenza volontaria al tempo di Francesco? Il povero era il debole, colui che non poteva difendersi: lo erano, indipendentemente dalla loro condizione economica, il pellegrino, l’orfano, la vedova, e con queste categorie di persone, in cui oggi vediamo ogni emarginato, la regola ingiungeva ai minori di vivere: vivere con loro, ma , ancor più profondamente, vivere come loro.
A imitazione di quel Salvatore che si era fatto povero: verità questa, iconicamente rappresentata nel Presepio di Greccio, vanto creativo della tradizione francescana. Un luogo in cui uomini ed animali, lodano Dio, proprio come nel Cantico delle creature, manifesto anti Cataro in cui una natura redenta si specchia nel suo autore. A dettarlo fu un Francesco debole ma, proprio per questo, capace di sciogliere un gioioso cantico a quel sole che non poteva più vedere, accogliendo la sorella morte, avvertita ormai come prossima. Da questa esperienza di un dolore offerto, rampolla quella perfetta letizia oggi più difficile da attingere, forse proprio perché ci si ostina ad esorcizzare la fatica di abitare un mondo piagato in cui baluginano stille di bellezza.
Il poeta le canta nei quattro elementi di matrice empedoclea: la materna fecondità della terra, la casta preziosità dell’acqua, la gagliarda vigoria del fuoco, l’imprevedibile mutevolezza dell’aria. Un messaggio questo tanto più profondo se si pensa che l’uomo dell’Evo Medio non si confrontava, come noi, con una natura languente da preservare; ma ne esperiva quotidianamente l’aspetto minaccioso, dovendo lottare con lei per la sua stessa sopravvivenza.
Altro Cristo, Francesco ricevette, sempre negli ultimi anni della sua esistenza terrena, un segno di questa perfetta conformazione: si tratta di quello che dante definirà l’ultimo sigillo, cioè la possibilità di rivivere la passione nel suo stesso corpo. Un segno che, fino a quando fu su questa terra, l’assisano celò accuratamente, e in questo, sempre citando l’Alighieri, risiede quel “farsi pusillo”, vera cifra della sua grandezza.
Lascia un commento