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Referendum costituzionale: le ragioni del no

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2011 Italian referendums 

 

di Simone Pajno

 

La riforma costituzionale Renzi-Boschi promette molto, ma mantiene molto poco. Meglio, promette di fare una cosa, ma in realtà ne fa una molto diversa. Ma andiamo con ordine, e cerchiamo di capire a quale problema, con questa riforma, si intende dar risposta.
Secondo la Relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale presentato dal Governo, il nostro sistema sarebbe caratterizzato da uno strutturale stallo decisionale che impedirebbe allo Stato di svolgere efficacemente le politiche pubbliche, cui si affianca un altissimo tasso di conflittualità istituzionale reso manifesto dai numerosissimi ricorsi delle Regioni contro le leggi dello Stato. Ciò sarebbe da addebitare essenzialmente ad un “eccesso di competenze” che la riforma costituzionale del 2001 avrebbe riconosciuto alle Regioni. Sarebbe dunque necessario procedere ad un riaccentramento delle competenze, in modo tale da dotare lo Stato dei poteri necessari a perseguire con efficacia il bene comune. La Relazione governativa ritiene tuttavia che tale obiettivo vada perseguito senza sacrificare l’autonomia territoriale, della quale si ribadisce l’importanza nell’ambito di un valido sistema democratico. Per raggiungere simultaneamente questi due obiettivi – quasi una quadratura del cerchio – la Relazione promette di realizzare un trade-off tra competenze (regionali) e partecipazione: la riforma ridurrebbe le competenze legislative delle Regioni, compensando però questa perdita con l’accrescimento della loro partecipazione ai processi decisionali del centro. Lo strumento tramite il quale questo effetto dovrebbe essere realizzato è il nuovo Senato, il Senato delle autonomie territoriali.

 


Queste le promesse, in effetti molto accattivanti. La loro realizzazione, però, è decisamente deludente, e certo tradisce le aspettative generate dalla Relazione. Il promesso riaccentramento delle competenze è deciso e radicale. Su tutti i temi e le politiche più importanti il bastone del comando torna saldamente nelle mani dello Stato, che potrà utilizzarlo senza dover interloquire con le Regioni. Così è, ad esempio, per tutto ciò che attiene allo sviluppo economico, al governo del territorio, all’energia, ai trasporti, alle grandi infrastrutture ed alla finanza pubblica. Se questa parte della promessa è mantenuta, non lo è per nulla quella che riguarda il Senato, che è del tutto inadeguato ad assicurare alle Regioni quella partecipazione ai processi decisionali del centro che sarebbe necessaria per compensarle dell’autonomia perduta. Vediamo perché.

 


Da un punto di vista strutturale, innanzi tutto, balza agli occhi la circostanza secondo la quale la riforma lascia intatto il libero mandato per i senatori: in sintesi, non è predisposto alcun meccanismo per assicurare, o anche solo per rendere probabile la coincidenza del punto di vista espresso da questi ultimi nell’Assemblea di Palazzo Madama con l’indirizzo politico che promana dalle istituzioni regionali. Stando così le cose, tuttavia, i senatori esprimeranno voti potenzialmente anche molto distonici rispetto alla posizione dei Presidenti di Regione e dei Consigli regionali, rispondendo (nella migliore delle ipotesi) alla propria coscienza, oppure (nella peggiore) a “scambi politici” di vario genere. Una istituzione così congegnata, dunque, è certo inadeguata rispetto allo scopo di “portare al centro” il punto di vista delle Regioni, le quali è presumibile che non rinunceranno a canali alternativi di rappresentanza territoriale: prima tra tutti la Conferenza Stato-Regioni. Ciò, però, minerà ancor di più la già dubbia credibilità “territoriale” del nuovo Senato. Certo è che i Presidenti di Regione non avranno alcun motivo per non impugnare dinanzi alla Corte costituzionale le leggi statali approvate con il voto dei loro senatori, visto che questi ultimi decideranno di testa propria cosa votare. La speranza che il testo di riforma possa aiutare a diminuire la conflittualità costituzionale sembra dunque mal riposta.

 


Per di più, se proviamo a dare uno sguardo alle funzioni del nuovo Senato, ci accorgiamo che, sulle politiche pubbliche di maggior interesse per le Regioni, sostanzialmente esso “non tocca palla”. Tali politiche saranno infatti affidate alla legislazione della sola Camera dei deputati, potendo il Senato, al più, proporre modifiche che potranno essere respinte dalla Camera a maggioranza semplice: ossia con la sola maggioranza di governo.
La riforma ha di fronte un nodo problematico: da un lato, infatti, non è possibile pensare che su settori importanti come quello dell’energia o dei trasporti lo Stato non possa sviluppare una politica nazionale. D’altra parte è noto a tutti come queste politiche possono comportare interventi molto invasivi nei territori in cui si inseriscono, selezionandone alcuni usi e impedendone radicalmente altri, rischiando inoltre di compromettere beni importanti come la salute. Gli esempi delle trivellazioni petrolifere, della TAV e del nucleare – ben noti nel dibattito pubblico – possono bastare. Deve tuttavia essere messo in luce che già oggi questi interventi possono essere senz’altro realizzati dallo Stato. La diagnosi su cui la Relazione governativa basa la propria terapia, infatti, è decisamente errata. Ad oggi, infatti – per effetto dei percorsi seguiti dalla giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni – non c’è settore materiale che sia del tutto precluso allo Stato, e non esiste intervento o grande opera che lo Stato non possa realizzare. Deve solo aver cura di predisporre gli adeguati meccanismi collaborativi con il sistema delle autonomie territoriali, per tenere adeguatamente in conto il punto di vista che lì emerge. Però nessuno può ad oggi seriamente sostenere l’esistenza di un potere di blocco delle Regioni di cui sia necessario sbarazzarsi. La miglior prova di tutto ciò è che non esiste una sola grande riforma statale che sia stata radicalmente bocciata dalla Corte costituzionale per violazione delle competenze regionali: la Consulta, al massimo, si limita a rendere obbligatori alcuni passaggi collaborativi nella esecuzione degli interventi.

 


Ora, come si sa, i nodi si possono sciogliere o tagliare. In questo caso, sciogliere il nodo vuol dire cercare di metter su un sistema che coniughi con pazienza l’esigenza di realizzare con efficacia politiche unitarie con quella di tener conto del punto di vista dell’insieme delle Regioni, che devono farsi carico della responsabilità di proporre una visione territorialmente orientata dell’interesse generale. Ed è questo che promette la Relazione governativa. Come si è visto, però, si tratta di una promessa non mantenuta dal testo di riforma, che invece procede senz’altro a recidere con decisione il nodo, conseguendo l’obiettivo di dotare lo Stato di poteri ancor più indiscutibili di quelli di cui dispone ora, senza curarsi della sorte delle cime ad oggi annodate, ossia del destino delle autonomie.

 


La riforma costituzionale Renzi-Boschi è dunque portatrice di una recrudescenza centralista probabilmente inedita nel nostro sistema costituzionale. Ove entrasse in vigore, da domani lo Stato non incontrerebbe più limite alcuno nel progettare e realizzare le proprie politiche, anche ove in profondo contrasto con le realtà territoriali, non dovendo neanche curare quei passaggi collaborativi che, come si è visto, ad oggi la Consulta gli richiede. Il controllo della finanza regionale e locale sarebbe ancor più pervasivo di quanto non lo sia già oggi, e non ci sarebbe centrale nucleare, trivellazione petrolifera, gallerie per alta velocità o passanti ferroviari che le istituzioni politiche nazionali non potrebbero realizzare anche in disaccordo con quelle regionali e locali. Chi crede che l’autonomia sia un valore che vada preservato, in quanto strettamente connesso all’esplicarsi del principio democratico, dovrebbe dunque votare NO.

 


Un ultimo aspetto su cui conviene soffermarsi riguarda infine le Regioni speciali. Si tratta di un profilo della riforma ingiustamente sottovalutato dal dibattito pubblico, nonostante sia di grande importanza. La riforma costituzionale, ove entrasse in vigore, avrebbe infatti l’effetto di approfondire non poco il regime di separatezza che già oggi caratterizza questo tipo di Regioni. Ciò non solo perché a queste ultime non si applicherebbero le norme, decisamente penalizzanti per le ragioni dell’autonomia, reperibili nel testo di riforma, dovendosi anzi ritenere che ad esse continuerebbero ad applicarsi quelle norme della riforma del 2001 ad oggi efficaci anche nei loro confronti, pur se abrogate per le Regioni ordinarie. La divaricazione delle sorti delle Regioni speciali rispetto a quelle del regionalismo ordinario sarebbe infatti ben più profonda. La riforma avrebbe infatti l’effetto di cristallizzare al massimo grado dell’ordinamento il principio per il quale la posizione costituzionale delle Regioni speciali può essere modificata solo sulla base di un accordo con (ciascuna) di esse. Si tratta di una scelta davvero discutibile dal punto di vista della politica del diritto, in grado di privare la rappresentanza politica nazionale al suo massimo grado di espressione della possibilità di declinare un diritto costituzionale comune per tutte le autonomie, capace di offrire una sintesi generale valevole per tutto l’ordinamento.

 


È certo comprensibile il timore delle autonomie speciali di trovarsi coinvolte nel vistoso processo di riaccentramento di funzioni e compiti che sta interessando le Regioni ordinarie. Il testo di riforma, tuttavia, alimenta l’aspettativa delle prime a muoversi in senso radicalmente distonico rispetto al sistema ordinario. Con il risultato di rischiare di abbandonare a se stesse le Regioni insulari, sempre più in difficoltà, e di mettere in dubbio la permanenza di un sentimento di comune appartenenza per quelle alpine. Il prezzo da pagare ove si voglia votare SI comprende anche questo.

 


 

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