Riappropriarci della democrazia per salvarci dal populismo

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Foto da Flickr

La democrazia che va sempre di nuovo riconquistata

Ha avuto grande eco sui mezzi di comunicazione il discorso sulla democrazia del presidente Mattarella, in apertura della Settimana Sociale dei cattolici, a Trieste. Per una pura coincidenza, proprio in queste settimane è in corso di svolgimento la campagna per la raccolta di firme in vista di un referendum abrogativo che modifichi la legge elettorale attualmente vigente, consentendo all’elettore di esprimere le proprie preferenze per singoli candidati.

Una iniziativa che si pone come alternativa all’attuale sistema decisamente “partitocratico” e di cui infatti è promotore un comitato trasversale rispetto a tutti i partiti e non riconducibile a un univoco colore politico.  

Il legame tra i due eventi è dato dal fatto che al centro del discorso di Mattarella c’è stato un monito riguardante «tutta la difficoltà, e a volte persino un certo affanno, nel funzionamento delle democrazie» e sul fatto che «la democrazia non è mai conquistata per sempre».

A ridarle sempre nuovo vigore devono essere i cittadini con la loro attiva partecipazione. E proprio sotto questo profilo un segnale allarmante viene dall’astensionismo sempre crescente delle ultime consultazioni elettorali.

Alla radice, nell’analisi del presidente, c’è la perdita della grammatica elementare della cittadinanza responsabile. Un “analfabetismo” che impedisce che «tutti prendano parte alla vita della sua società e delle sue istituzioni (…). Ogni generazione, ogni epoca, è attesa alla prova della“alfabetizzazione”, dell’inveramento della vita della democrazia (…). Battersi affinché non vi possano essere “analfabeti di democrazia” è una causa primaria, nobile, che ci riguarda tutti (…). Per definizione, democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme».

La proposta di referendum

Ebbene è a questa prospettiva che si spira l’iniziativa referendaria volta a cambiare l’attuale legge elettorale, nota come “Rosatellum” (dal nome di Ettore Rosato che fu uno dei proponenti,) in vigore dal 2017, dopo le sentenze della Corte Costituzionale che avevano modificato sia la legge elettorale per il Senato nota col significativo nome di “Porcellum”, sia quella, in realtà mai utilizzata, per la Camera, soprannominata “Italicum”.

Il “Rosatellum” è una legge elettorale mista, in parte maggioritaria e in parte proporzionale. Non entriamo qui nel merito della sua struttura.

Ciò che i promotori del referendum hanno di mira e chiedono di abrogare è il fatto che, in base ad essa al cittadino viene sottratta la possibilità di scegliere uno o più candidati, tra quelli presenti nella lista, e di esercitare così un ruolo decisivo nel determinare il successo dell’uno o dell’altro di sua fiducia. A gestire il voto da lui dato alla lista è alla fine la direzione del partito che ha composto la lista e che in buona sostanza ha scelto per lui i candidati destinati a entrare in Parlamento.

Una manipolazione della volontà popolare che assume la forma di una vera e propria illusione ottica quando il leader del partito, o un altro soggetto di richiamo, per attirare sulla propria persona il maggior numero possibile di voti si presenta come capolista in più collegi, riservandosi di sceglierne uno, a elezione avvenuta, e far entrare in Parlamento i “secondi”, a cui in realtà chi aveva votato per loro non pensava affatto.

L’iniziativa “Io voglio scegliere” vuole chiamare i cittadini a cambiare questo sistema, reintroducendo il voto di preferenza per i singoli candidati e abolendo le pluri-candidature.

L’intento è quello di riavvicinare alla politica attiva frange sempre più consistenti di cittadini che ormai non si recano neppur alle urne, nell’ipotesi che questa disaffezione sia derivata, almeno in una certa misura, dalla consapevolezza che il proprio voto viene ormai incasellato all’interno di un meccanismo di cui solo i vertici dei partiti hanno il controllo.

«Il diritto di scegliere» in una democrazia parlamentare

In questo senso, dopo la grande ondata di populismo che ha investito il nostro paese portando a una radicale svalutazione del Parlamento – in nome di una “democrazia diretta” e al primato di una volontà popolare, che poi in realtà veniva a identificarsi con quella degli iscritti alla fatidica «piattaforma Rousseau» (il nome non era casuale) – , qui la lotta contro la “casta” viene condotta seguendo la via opposta: non la svalutazione della rappresentanza parlamentare, ma la sua rivalutazione e personalizzazione.

L’idea è che la democrazia non si garantisce meglio abolendo le mediazioni e puntando sull’adesione delle masse, come hanno sempre fatto e fanno tutti i regimi totalitari, bensì esprimendo dei rappresentanti qualificati, con cui gli elettori che li scelgono come espressione delle proprie idee e dei propri interessi possano avere prima e dopo l’elezione un rapporto dialogico e responsabile, impossibile nelle “adunate oceaniche” che caratterizzano il consenso incondizionato al “capo” di turno.

Una prospettiva molto diversa da quella del disegno di legge sul premierato, appena passato al Senato, anche se per certi ha in comune con esso alcune esigenze. «Un primo passo in avanti per rafforzare la democrazia, dare stabilità alle nostre Istituzioni, mettere fine ai giochi di palazzo e restituire ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati», l’ha definito la premier Giorgia Meloni.

Ebbene, anche secondo i promotori di “Io voglio scegliere” questo «diritto di scegliere da chi essere governati» è stato in questi anni sottratto, in una certa misura, ai cittadini, e va restituito ad essi.

Ma la soluzione da essi proposta non è di scavalcare il Parlamento – come nella più pura logica populista – sottraendogli la scelta del primo ministro e del governo , per affidarlo alla roussauiana “volontà generale”, bensì di rendere più personale e più limpido il rapporto dei cittadini con coloro che formeranno il Parlamento e che poi dovranno esprimere l’esecutivo.

Non è certo questo l’intento del disegno di legge sul premierato. Basta pensare che in esso si prevede che alla lista del premier eletto spetti un «premio su base nazionale, che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere».

Il dibattito parlamentare, a questo punto, sarebbe a priori vanificato e il Parlamento avrebbe solo il compito di sanzionare e tradurre in leggi le scelte del premier. Come in tutte le dittature. Non è un caso che proprio  grazie all’introduzione del premio di maggioranza, previsto dalla legge elettorale Acerbo, nel 1923, il fascismo abbia potuto dare al suo potere una vernice di legittimità costituzionale.

Sempre in nome della fiducia nel “capo” («Se volete dirmi che ancora credete in me scrivete sulla scheda “Giorgia”) che rende superflua l’attenzione  alle persone e ai programmi dei membri del Parlamento.

Ma perché  un eventuale referendum sul “Rosatellum” abbia successo e non naufraghi nell’indifferenza generale, come tanti altri, per la mancanza del quorum, è necessario un risveglio della coscienza  politica degli italiani, da troppo tempo assuefatti a una logica di delega.

Il vecchio e il nuovo populismo si possono sconfiggere solo attraverso quella effettiva, consapevole, personale assunzione di responsabilità dei cittadini verso il bene comune a cui il presidente Mattarella si appellava nel suo discorso a Trieste. È attraverso questo sforzo di consapevolezza, non con la fede in un leader, che potremmo riappropriarci della  nostra democrazia.

3 replies on “Riappropriarci della democrazia per salvarci dal populismo”

  • Aggiungo una osservazione per sottolineare l’importanza fondamentale delle leggi elettorali. Utilizzo un risultato del sistema elettorale inglese che abbiamo visto all’opera ieri. In Gran Bretagna per assicurare un forte radicamento territoriale dei deputati l’elezione avviene per singolo collegio elettorale (constituency) in cui vince il candidato che prende più voti. Questo sistema tende a ridurre gli effetti del puro voto di opinione o di protesta estrema ma conserva la rappresentanza di minoranze territoriali. Uno degli effetti paradossali più eclatanti è stato il fatto che due partiti (Lib-dem e Reform UK) che a livello nazionale hanno avuto il 12,2% e il 14,3% dei voti alla conta degli eletti stanno 71 a 4. Semplificando, il primo è un partito di antica formazione (con alterne fortune) che ha candidati radicati nel territorio, il secondo è un partito di protesta (contro l’UE, contro il lockdown, contro i vaccini, ecc.). Lo stesso risultato di voti alle elezioni europee avrebbero condotto a una rappresentanza proporzionale ai voti ricevuti.
    Se la legge elettorale è fondamentale, l’astensione è un dramma opportunamente amplificato dalla legge elettorale.

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