Il cammino sinodale della Chiesa cattolica è un percorso, voluto fortemente da papa Francesco, volto sia ad una conoscenza più profonda della crisi della Chiesa sia ad un’opera di rinnovamento. Un percorso, quello del sinodo, che dovrebbe condurre ad affrontare tematiche connesse alla morale sociale e politica, alla sessualità, alla gestione del potere nella Chiesa, alla relazione con il mondo, alle sfide dell’odierna comunità umana, all’annuncio evangelico in un mondo che cambia repentinamente. Uno sforzo del genere necessita di un’importante riflessione teologica la quale a sua volta, in tempo di sinodo, è invitata ad un sostanziale rinnovamento. Di questo tema discutiamo con Giuseppe Lorizio. Professore ordinario di Teologia fondamentale nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Lorizio è editorialista di Avvenire e interviene spesso sui media (Famiglia cristiana, Radiovaticana, Raiuno, TV2000 ecc.) e per un decennio è stato membro del Comitato nazionale per gli studi superiori di Teologia e di Scienze Religiose della Conferenza Episcopale Italiana. Di recente ha pubblicato, per i tipi della San Paolo, nella collana “Abside”, un importante volume di teologia fondamentale dal titolo Semi del Verbo, segni dei tempi (2021).
– Professore Lorizio, in un recente articolo apparso su Settimananews lei ha affermato che in Italia “il degrado della teologia accademica è sotto gli occhi di tutti”. Quali sono le principali cause di questa situazione?
Nel lontano 1996, presso l’Università Lateranense, in collaborazione con la rivista Rassegna di Teologia, espressione della sez. San Luigi della Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, si tenne un importante convegno dal titolo “La frammentazione del sapere teologico”, i cui atti vennero pubblicati due anni dopo dalle edizioni San Paolo a cura di Saturnino Muratore e del sottoscritto.
Le due istituzioni che ho avuto l’onore di servire con la mia ricerca e il mio insegnamento si impegnarono molto per la riuscita di quell’evento, che tuttavia non ebbe seguito nell’auspicata ristrutturazione degli studi teologici e filosofici. Le analisi della crisi della teologia accademica proposte in quella sede restano ancora del tutto valide, anche perché la situazione risulta essersi ulteriormente aggravata. La frammentazione veniva da un lato denunciata, dall’altro interpretata a tre livelli: quello del rapporto fra teologia, filosofia e altre forme del sapere (in particolare le cosiddette scienze “empiriche” e “umane”), quello del rapporto fra teologia scientifica e spiritualità vissuta sia da presbiteri che da religiosi e laiche/i, infine quello della nefasta frattura fra teologia e “pastorale”. Su quest’ultima si è soffermato, sempre su Settimananews (http://www.settimananews.it/teologia/per-una-teologia-militante-2/) uno dei teologi più attenti e perspicaci, a mio parere, di cui la terra di Sicilia dovrebbe andare fiera: Massimo Naro. A lui si deve anche l’aver chiarito con lucido rigore i termini che avevo utilizzato nel mio intervento e averne proposto il senso autentico, in particolare riguardo agli aggettivi: “partigiana” e “militante”, attribuiti all’auspicata teologia del futuro da parte del sottoscritto. L’aggravarsi del declino del sapere teologico accademico trova un ulteriore motivo di preoccupazione nel decadimento del livello “scientifico” della teologia e nell’abbandono dello studio dei “classici” sostituiti da manuali, così come si evince da un approfondito e documentato intervento del filosofo Giovanni Salmeri, dedicato al rinnovamento degli studi teologici proposto dall’Associazione Teologica Italiana (http://www.settimananews.it/cultura/una-proposta-riordino-studi-teologici/).
– A suo parere, la “rifondazione” del sapere teologico potrà essere possibile soltanto attraverso una fuoriuscita dello stesso dalle strutture accademiche. In concreto, come realizzare questo concetto?
Come cerco di spiegare in quell’intervento non si tratta per la teologia di uscire fisicamente dall’Università, anzi di tornarvi dove non fosse presente, ma di una conversione mentale, ovvero dell’urgente necessità di intercettare e pensare, oltre che a partire dalla Rivelazione, affrontando le tematiche presenti nel contesto contemporaneo, che interpellano la fede e l’esistenza delle donne e degli uomini di questo nostro tempo, per cui i luoghi più propri che il sapere teologico è chiamato ad abitare saranno la città e la comunità credente prima ancora che la struttura universitaria. A tal riguardo si registra una marginalità e una progressiva marginalizzazione della fede e del sapere che da essa si genera nell’areopago e nell’agorà contemporanei. Questo non solo a causa di forme ottuse di laicismo che nulla hanno a che vedere con la “sana laicità”, ma anche a motivo dell’autoghettizazione dei teologi, che rifuggono dal dibattito pubblico, mettendo così a repentaglio la stessa scientificità del sapere che praticano. Infatti, una forma del sapere potrà anelare al titolo di “scienza” se si esprime come sapere pubblico e strutturato. E su entrambi questi fronti abbiamo molto da lavorare nella formazione dei giovani teologi.
– Si tratta per lei, di una rifondazione che conduca ad una teologia “partigiana e militante” in grado di interpretare fenomeni attuali come la pandemia da Covid-19, la guerra in Ucraina e la crisi sociale in corso al fine di offrire una visione delle cose. È così?
Esattamente, nel senso ben spiegato da Naro. Come chi avuto modo di dire in un recente dibattito promosso dalla CISL sulla guerra, non si tratta di derivare direttamente dalla Parola di Dio attestata nelle Scritture e dalla fede delle scelte politiche o addirittura geo-politiche. In tal caso saremmo in pieno fondamentalismo, piuttosto al teologo è affidato il compito di intercettare i segni dei tempi (kairói) per innestare su di essi l’annuncio (kérygma) evangelico. Per questo in recenti occasioni, nel tentativo di disegnare un modello epistemologico per la disciplina che mi è affidata, la teologia fondamentale, lo esprimevo nei termini di un “modello” teologico ellittico, con i due fuochi del kérygma e del kairós, nella consapevolezza che originariamente si dava la coincidenza delle due parole nell’unico evento salvifico, in analogia con la coincidenza a livello comunicativofra medium e messaggio (cf. Marshall McLuhan e Derrick de Kerckhove) – Deus revelans = Deus revelatus (il Dio che rivela è lo stesso Dio che si rivela). E la Chiesa? Essa «nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (Dei Verbum, 8). In tale prospettiva l’ecclesialità del sapere teologico non si misura esclusivamente nella sua capacità di commentare il magistero ai diversi livelli, piuttosto nel porgere quadri di riferimento critico alla comunità credente, che cammina nella storia.
– Il cammino sinodale, e il magistero di papa Francesco, quanto possono tornare utili per lo sforzo di comprendere la crisi della teologia in Italia al fine di oltrepassarla?
Papa Francesco in diverse occasioni pungola i teologi, chiedendo loro di non rifugiarsi in dissertazioni accademiche prive di rapporto con la vita. Naro nel suo intervento cita alcuni momenti del suo magistero che interpellano profondamente la teologia. Quanto al sinodo sarebbe auspicabile una reciprocità di rapporto fra esperienza sinodale e sapere della fede. Il ruolo di quest’ultimo in particolare dovrà essere esercitato in modo che le scelte che le comunità si apprestano a far proprie siano adeguatamente motivate alla luce della Rivelazione e della Tradizione. Purtroppo, siamo ben lontani da tale reciprocità, in quanto i teologi vengono interpellati solo marginalmente e occasionalmente nelle assemblee sinodali, in particolare a livello diocesano, per cui si verifica la triste vicenda dell’“usa e getta”, senza continuità fra i diversi momenti e con la convinzione diffusa che il teologo dopo essere stato ascoltato debba semplicemente essere congedato e salutato. Voglio dire che a tutti i livelli viene disatteso l’invito di papa Francesco a innestare dei processi, piuttosto che a indire delle iniziative e dei convegni. Di tali processi i teologi dovrebbero essere, insieme al popolo di Dio e ai suoi pastori, protagonisti non solo occasionali.
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