L’abbattimento dei confini
Ormai bisogna prenderne atto: lo specchio in cui guardare per cogliere l’anima dell’Italia non è il Parlamento, non sono i convegni e le prese di posizione degli intellettuali, né i libri che si pubblicano, bensì il festival di Sanremo. A dirlo sono già i numeri: quest’anno sono stati 10 milioni 757 mila – pari al 62.4% di share – i telespettatori che hanno seguito su Rai1 la prima serata del festival (dalle 21.18 all’1.40!). Con un picco di ascolti di 16 milioni 470 mila spettatori.
Ma lo confermano ampiamente l’eco che questo evento ha avuto sulla stampa nazionale e sui social e le stesse risonanze polemiche che ha suscitato. Quella che era soltanto una rassegna canora di canzonette si è trasformata in un palcoscenico dove si alternano non solo cantanti, ma anche influencer, comici, esponenti del mondo della cultura e dello sport, che dicono la loro su tutta una serie di problemi che con la musica non c’entrano, ma sono invece di vitale importanza per la nostra interpretazione di noi stessi.
Quest’anno questa “contaminazione dei generi” ha raggiunto forse il suo apice con la presenza addirittura del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che non ha disdegnato di salire sul palco dell’Ariston e di essere immortalato in un selfie con Amadeus, Chiara Ferragni e Gianni Morandi.
Già questo contesto – impensabile pochi anni fa – è eloquente. Esso parla del superamento di rigidi confini tra l’ambito delle “cose impegnative”, come la morale o la politica, e quello definito tradizionalmente “divertimento”. Tutto diventa spettacolo e in questo “apparire” confluiscono, senza più distinzioni, le sceneggiate di Blanco, i monologhi delle influencer, la difesa della nostra Carta costituzionale.
Profondità e superficialità
Superficialità? Direi che siamo davanti a un segno dei tempi. Qualcuno ha scritto una volta che «ciò che è profondo sta alla superficie». E, prima, un filosofo inglese del Settecento, Berkeley, aveva sostenuto che «esse est percipi», esiste ciò che viene percepito. Il contenuto coincide con l’immagine. La nostra società si fonda su questa filosofia e il festival di Sanremo non fa che esprimerla in modo particolarmente eloquente.
Nel constatare questo dato di fatto è inevitabile che il pensiero vada ad una frase di Antoine De Saint-Exupéry ne «Il piccolo principe», un libro forse più ammirato che compreso: «L’essenziale è invisibile agli occhi». Un’affermazione secondo cui sarebbe fondamentale, per comprendere qualcosa, andare al di là delle apparenze – e quindi delle pulsioni che esse suscitano – , attivando le risorse profonde dell’anima, il pensiero, l’affettività. La cultura dell’immagine si fonda invece sulle reazioni immediate, irriflesse, altrettanto superficiali degli stimoli che le suscitano. Non per nulla il nostro è il tempo della post-verità, che si pone al di là del tradizionale dualismo tra vero e falso, perché non riconosce più la differenza tra l’apparenza e la realtà.
Non si tratta di astratte considerazioni teoriche. Tutto ciò ha una precisa ricaduta sul nostro modo di vivere e risulta determinante nella formazione delle persone più giovani, educandole fin alla più tenera età, attraverso l’accesso alla televisione e l’uso di cellulari e di tablet, a rispondere automaticamente agli stimoli visivi e auditivi, senza passare attraverso uno sforzo di comprensione che aiuti a capire il senso di questi stimoli.
L’elogio della Costituzione
Ma quale è stato il messaggio veicolato da questo festival? Una grande eco, anche polemica, ha avuto quello che Roberto Benigni ha detto sulla Costituzione: «Non bisogna solo leggerla, bisogna viverla. Bisogna amarla».
Il brillante comico, fra una battuta e l’altra, ha citato l’articolo 11: «Nella nostra Costituzione c’è un articolo che dice l’Italia ripudia la guerra. Noi l’abbiamo scritto nella Costituzione. Se l’avessero adottato tutti non potrebbe più accadere che un Paese ne invade un altro». Benigni non l’ha detto, ma sono in molti a sostenere che anche l’Italia, che sulla carta il ripudio della guerra ce l’ha, in realtà sta partecipando a una guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ciò che appunto l’art. 11 esclude.
Poi Benigni si è soffermato sull’art. 21 che tutela la libertà d’espressione: «L’art. 21 ci ha liberati dall’obbligo di aver paura», dice. «Durante il Fascismo non si sarebbe potuto fare nemmeno Sanremo. Si cantava sempre la stessa canzone sul partito, sui soldati, sulla guerra».
Sarà stato il riferimento polemico – peraltro assolutamente corretto – al significato antifascista della nostra Carta costituzionale, sarà stato che il governo attuale si propone esplicitamente di stravolgerla in un punto essenziale, introducendo il presidenzialismo, sta di fatto che questo intervento non è piaciuto affatto a Matteo Salvini. «Non penso che la Costituzione abbia bisogno di essere difesa sul palco dell’Ariston», ha detto il ministro.
E gli hanno fatto eco tutti i giornali governativi, secondo cui il festival è stato manipolato dalla Sinistra. Un autogol, se si riflette sul significato delle cose. Perché questo malessere nei confronti della Costituzione evidenzia le origini post-fasciste di una Destra che ha messo a presiedere il Senato un suo rappresentante storico come La Russa, che tiene a casa il busto di Mussolini.
Come è un autogol l’attacco di Salvini e Calderoli alla Egonu per avere denunciato il razzismo che cova nel nostro paese e di cui i rappresentanti della Lega negano l’esistenza. Perché mai si sono sentiti chiamati in causa?
Una concezione della libertà
In realtà, però, è difficile parlare di Destra e di Sinistra in una manifestazione che ha avuto come filo conduttore, se mai, il “politically correct”, con tutto ciò che di valido esso comporta – la rivendicazione del diritto della donna a non aver paura di essere se stessa, nel monologo della Ferragni, o quella della umana dignità dei carcerati e del mancato apporto della scuola, in quello della Fagnani – , ma anche sposando una idea di libertà che, ancora una volta, esprime una filosofia oggi dominante, e che potrebbe riassumersi nella formula usata da Amadeus nella conferenza stampa del giorno di apertura del Festival: diritto di ognuno «di vivere la propria vita come meglio crede. E di vivere pubblicamente come meglio crede».
Il conduttore e direttore artistico del festival ha voluto tornare sulle polemiche che, prima dell’apertura della manifestazione, hanno riguardato gli artisti in gara e le persone gender fluid: «Io non amo le etichette, non amo parlare di generi, ma di essere umani», ha detto. «Ognuno è libero di vivere la propria vita come meglio crede. E di vivere pubblicamente come meglio crede. Ho sempre un po’ paura del moralismo. Ai bambini va spiegato che esiste una persona diversa da un’altra, un uomo che ama un uomo o una donna che ama una donna. L’amore non deve essere etichettato. Questo va portato dovunque, anche in televisione. Io educo i miei figli così e non li ho mai visti sconvolti».
Al di là dell’esempio particolare dell’omosessualità, ciò che il principio enunciato da Amadeus dice potrebbe sembrare ovvio. È ciò che non dice a essere preoccupante. Manca, in questo concetto di libertà, un qualsiasi riferimento agli altri e alla responsabilità che ognuno di noi ha verso di loro. È la base teorica dell’individualismo selvaggio che oggi regna sovrano nella nostra società, tanto più radicato come ideologia in quanto finge di non esserlo e di costituire il sano residuo della “morte delle ideologie”.
È così che sono entrate in profonda crisi tutte le forme di vita comunitaria, dalla famiglia alla società politica. Perché, se si dice che «ognuno è libero di vivere la propria vita come meglio crede», si dimentica che la vita degli altri dipende in buona parte dalle nostre scelte e dai nostri comportamenti.
Che è profondamente diverso dal riconoscere che «la libertà di ognuno finisce dove comincia quella dell’altro» – come Amadeus sicuramente sarebbe d’accordo nel precisare – , perché, al contrario, implica che la nostra libertà non è mai assoluta, neppure quando si esercita nei confronti della nostra vita privata, ma è caratterizzata fin dalla sua prima origine dal riferimento all’altro. Cosicchè non è vero che l’alterità di chi ci sta di fronte ne sia il limite, perché, al contrario, ne è la condizione. Fin dall’inizio gli altri sono dentro di noi.
La fluidità del genere
Applicato al problema del gender, questo significa che la fluidità di cui sul palco dell’Ariston si è avuta ampia testimonianza, con i fatti e con le parole, è certamente un diritto personale, ma se diventa un potente messaggio culturale – come lo è nel caso del festival di Sanremo – assume un significato educativo che non può non influenzare la vita di milioni di persone, specialmente giovani.
Coloro che studiano i problemi legati all’omosessualità e all’identità di genere concordano nel concludere che in entrambe ha sicuramente un peso anche la dimensione sociale e culturale. La battaglia contro il paradigma binario tradizionale maschio-femmina non avrebbe, del resto alcun senso se non si riconoscesse questo ruolo della cultura.
Il rischio, però, è di sostituire questo paradigma con un altro, non meno influente, secondo cui l’orientamento sessuale e la identità di genere vanno inventati da ognuno giorno per giorno, indipendentemente dalla propria caratterizzazione sessuale. Con la conseguenza di rendere sempre più problematico quel delicato processo di identificazione sessuale che, da sempre, porta un ragazzo o una ragazza a coincidere pienamente col proprio corpo.
Peraltro, anche in questo caso, il festival di Sanremo è solo lo specchio di una società in cui ormai film, messaggi pubblicitari, mode, vanno in questa direzione. Qualcuno dirà che uno specchio non è responsabile dell’immagine che riflette. Ma forse bisognerebbe essere almeno un po’ più consapevoli che, nel tempo dell’«esse est percipi», esso contribuisce alla formazione dell’identità di coloro che vi si specchiano.
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