di Alfio Briguglia
Che tra scienza e fede ci debba essere necessariamente un conflitto insanabile è convinzione condivisa da molti scienziati e gente comune. Tale convinzione sembra avvalorata dalle esternazioni televisive di alcuni scienziati italiani, che ne hanno fatto quasi una battaglia personale. Il riferimento al processo a Galileo Galilei e alla condanna della ipotesi copernicana costituisce per molti una prova definitiva della inconciliabilità tra la professione di scienziato e la fede cristiana. Dico fede cristiana e non cattolica perché, in modi diversi, nel Seicento sia la chiesa cattolica che quella riformata condannarono il sistema copernicano come incompatibile con la Scrittura.
In un libro di qualche anno fa (La variabile Dio che porta come sottotitolo: In cosa credono gli scienziati?, Rizzoli, 2008) R.Chiaberge fa confrontare tra loro il gesuita George Coyne, astronomo e già direttore della Specola Vaticana, e l’ebreo agnostico Arno Penzias, premio Nobel per la fisica per avere captato la cosiddetta “radiazione fossile”. In quel libro l’autore riporta i risultati di una indagine statistica sulla fede degli scienziati, condotta nel 2003. Dal 1916 alla data dell’indagine, negli Stati Uniti, il numero degli scienziati credenti è sceso dal 40% a meno del 10%. Soprattutto fa problema, per loro, il rapporto tra evoluzione e religione. (Diverso è il risultato sulla religiosità degli statunitensi. In questo caso il 92% degli intervistati si dichiara credente in una qualche entità. Si possono trovare notizie aggiornate sullo stato di salute delle religioni nel mondo in http://www.pewforum.org/)
Se si scende nel dettaglio di una indagine fatta nella sola Cornell University, si vede che è possibile individuare quattro posizioni diverse.
Il 10% degli scienziati ritiene che scienza e fede siano inconciliabili: tra la razionalità della scienza e il ricorso ad una verità rivelata c’è inconciliabilità assoluta. L’8% degli scienziati è d’accordo col famoso paleontologo Jay Gould, scomparso da qualche anno, che sosteneva che scienza e religione fanno appello a magisteri diversi e quindi sono reciprocamente indifferenti (sul tema vedi S.J.Gould, I pilastri del tempo, il Saggiatore, 1999). Solo meno del 3% degli scienziati sostiene che scienza e religione sono in armonia. Il 72% sostiene che non vi sia alcuna contraddizione perché considera la religione come attività culturale tipica di homo sapiens sapiens; essa quindi è valutabile come aspetto sociobiologico della evoluzione della cultura umana (Chiaberge, cit. p.59-60).
Quest’ultima posizione si è espressa in Italia sotto altra forma: quella dei non credenti devoti. Si apprezzano, cioè, i valori religiosi e si ritiene la religione socialmente e politicamente (per loro!) utile, ma non si crede in Dio. La religione, quindi, non ha a che fare con la trascendenza e il sacro ma con la sociologia, la politica, la biologia. In modo autoironico, qualche anno fa, il regista Martin Scorsese, in una interista radiofonica, dichiarava: “Non so se credo in Dio, ma so che sono cattolico”. In maniera più seria un filosofo come J.Habermas ritiene che le religioni possiedono una risorsa di valori che, desacralizzati, possono essere messi a disposizione delle moderne società secolarizzate, che non possiedono tali risorse (vedi J.Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, 2005).
Se si passa dagli scienziati all’uomo comune, le cose per il dialogo scienza – fede non stanno meglio, perché anche chi crede condivide spesso col non credente, senza porsi problemi, una visione del mondo determinista e materialista, che lascia poco spazio ad alcune convinzioni fondamentali del credente come quella secondo la quale al fondo di tutto vi è un senso del cosmo, un’assistenza misteriosa e trascendente che i credenti chiamano “Provvidenza”. Questi credenti si trovano in un regime di doppia verità: la religione è una pratica o un sentimento soggettivo che può convivere perfettamente con la negazione degli articoli del Credo, fatta da alcuni scienziati in nome della scienza. Viceversa altri credenti adottano una tattica fondamentalista che considera la scienza un’attività utile per mettere le mani sulla natura, ma incapace di fare un discorso sul senso del mondo e sul suo futuro: qualunque cosa possano dire gli scienziati solo nella Scrittura, letta senza interpretazione, c’è la verità sull’uomo e sul mondo.
Nessuna di queste posizioni rende possibile un dialogo fruttuoso tra credenti e scienziati.
I motivi storici e filosofici per i quali si è giunti a tale conflitto o indifferenza sono tanti. Sicuramente, come già detto, ha contribuito alla rottura del dialogo la condanna di Galileo Galilei nel 1633 da parte del Tribunale del Santo Uffizio. Fino ad allora Chiesa Cattolica e scienze della natura avevano convissuto senza problemi. Anzi, proprio in nome della incarnazione, la ragione era stata sempre ritenuta compagna fedele della fede. Sant’Agostino affermava, addirittura, che la fede senza la ragione non è nulla. Si sa come i primi secoli dell’era cristiana abbiano visto un imponente sforzo di riflessione teologica e filosofica per armonizzare la fede e la cultura classica, sia letteraria che filosofica. Nel Medioevo nella formazione dei teologi era compresa la logica, la filosofia, la matematica, l’astronomia, la musica, che era considerata disciplina ponte tra la matematica e le applicazioni strumentali. Nel Cinquecento e nel Seicento i Gesuiti diedero un grande impulso alla formazione scientifica e, in particolare, allo studio della matematica. Copernico, colui che è considerato all’origine della rivoluzione astronomica, era un canonico a Cracovia in Polonia.
Prima di Galileo la fisica non aveva ancora acquisito consapevolezza di un metodo specifico, quello che unisce speculazione teorica, linguaggio matematico ed esperimento. La scoperta del metodo diede alla fisica un impulso straordinario che la rese sempre più consapevole della propria autonomia rispetto alla filosofia e alla teologia.
Il nuovo metodo scientifico produsse visioni della realtà sempre più raffinate e potenti. I secoli che seguirono l’opera di Galilei produssero trattati sul sistema planetario, sulla meccanica, sulla teoria del calore, sulla elettricità, fino all’avvento della esplorazione dell’atomo, del nucleo, della struttura della nuova tavola periodica del cosiddetto Modello Standard delle particelle elementari. La moderna cosmologia traccia la storia dell’universo a partire dal tempo dopo l’era di Plack, una frazione infinitesima di secondo dopo il Big bang pari a 10-43sec.
Se pensiamo che ai tempi di Galilei ancora si riteneva che terra e cielo fossero cose diverse e che solo la filosofia potesse indagare la natura vera di quest’ultimo o che fino all’Ottocento si riteneva che la vita animale fosse il risultato di un principio vitale, di natura misteriosa e sconosciuta, si comprende come la nuova scienza abbia invaso territori che erano ritenuti di pertinenza di altre discipline, soprattutto filosofiche.
Con Darwin inizia un nuovo contenzioso sulla origine delle specie e la origine dell’uomo: il racconto naturalistico dello scienziato inglese entra in conflitto col famoso racconto della creazione, contenuto nei primi tre capitoli del primo libro della Bibbia, il libro chiamato “Genesi”. Oggi i neuroscienziati ci promettono che ben presto sarà svelato il mistero degli affetti e della coscienza, della creatività e dell’amore, del pensiero e della libertà, che è finito il tempo dell’anima, cioè quello dei filosofi e dei teologi, e che è iniziato quello del cervello, cioè il loro tempo.
Cosa dire di tutto questo? La fede cristiana si può solo accontentare di un mondo privato di emozioni e sentimenti, nel quale coltivare illusioni religiose? La verità, l’unica verità, ce la possono raccontare solo gli scienziati? L’unica verità possibile, anche se è una verità espressa in modo non definitivo, mutabile, approssimato, limitato e relativo? Sono gli scienziati i nuovi sacerdoti del sapere?
C’è da notare, però, che, nonostante la fine della religione sia stata decretata più volte nel corso della storia del pensiero da filosofi e scienziati (ricordiamo il bellissimo poema in latino di T.Lucrezio Caro: De rerum natura nel primo secolo a.C.), questa non è morta. Anzi è più viva che mai, anche se in forme molto diverse da quelle tradizionali. Inoltre non pochi scienziati, tra i quali anche premi Nobel e rappresentanti di prestigiose accademie scientifiche, continuano a sostenere che tra fede e scienza non vi è alcun conflitto.
La Chiesa Cattolica, da parte sua, non cessa di insistere sulla necessità del dialogo tra fede e scienza per l’armonia e l’equilibrio della ragione. Anzi il Vaticano possiede dal 1981 sul monte Graham nel deserto dell’Arizona un telescopio a tecnologia avanzata (VATT), naturale continuazione di una ricerca astronomica iniziata con la Specola vaticana, voluta dal papa Gregorio XIII nel 1578. Per sottolineare l’interesse perenne della Chiesa Cattolica per la ricerca scientifica, Pio XI, nel 1936, volle che nascesse una Pontificia Accademia delle Scienze con lo scopo di promuovere il progresso nella matematica, nella fisica, nelle scienze naturali, nella epistemologia.
Il catechismo, cosiddetto YouthCat, scritto negli USA per i giovani, rivisto e curato da Benedetto XVI, in preparazione della giornata mondiale della gioventù di Madrid, strutturato su domande e risposte, alla domanda: “C’è contraddizione fra fede e scienza?” risponde: “Non esiste una contraddizione insolubile fra fede e scienza, poiché non può esistere una doppia verità”. Commento del curatore: “Non esiste una verità di fede che possa fare concorrenza alla verità della scienza. Esiste una sola verità a cui fanno riferimento tanto la fede che la razionalità scientifica. Dio ha voluto la ragione, con la quale noi possiamo riconoscere le strutture razionali del mondo, allo stesso modo in cui ha voluto la fede. Per questo la fede cristiana richiede e promuove la fede e la scienza”.
A questo punto c’è una domanda alla quale è necessario rispondere: perché è così importante che tra scienza e fede ci sia armonia? Non ci si può accontentare di una tranquilla indifferenza, come sostengono alcuni noti teologi italiani?
Un cattolico, che non lo sia in modo superficiale, sa che c’è un motto, risuonato nei secoli nella sua chiesa, che caratterizza la sua fede. E’ una espressione di un autore latino del II secolo a.C., Publio Terenzio Afro, che i padri della chiesa hanno fatta propria: “Sono uomo; e di quello che è umano nulla io trovo che mi sia estraneo”. (Compare nell’atto 1, scena 1 della commedia Heautontimorumenos).
Sant’Ireneo ha scritto un’altra frase che è speculare a quella latina citata: “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. Se il cristiano crede che il Verbo si è fatto carne, è apparso in forma umana, la strada per incontrare Dio è l’uomo tutto intero. Fede e scienza non possono essere in contrasto perché ne risulterebbe un uomo dimezzato che, per credere, deve rinunciare alla ragione o che, per ragionare, deve rinunciare alla fede.
Proprio l’attenzione ai saperi scientifici, nonostante momenti di tensione e incomprensione, ha fatto sì che i biblisti imparassero a leggere la Bibbia in modo diverso e che i teologi continuassero a riflettessero sulle formulazioni delle verità di fede, per renderle più comprensibili e adatte alle mutate visioni del mondo, che la scienza e la cultura in generale propongono.
In una famosa lettera del 1988 al direttore della Specola Vaticana, il gesuita padre George Coyne (vedi sopra), Giovanni Paolo II così si esprimeva: “Che cosa è allora che la Chiesa incoraggia in questo rapporto di unità tra scienza e religione? Anzitutto che esse debbono cercare di comprendersi a vicenda. Per troppo tempo si sono tenute a distanza. La teologia, come «fides quaerens intellectum», è stata definita come lo sforzo della fede per portare a compimento l’intelligenza. Come tale, essa deve oggi attuare uno scambio vitale con la scienza proprio come ha sempre fatto con la filosofia e altre forme di cultura. La teologia, dato il suo interesse primario per argomenti come la persona umana, le capacità della libertà e la possibilità della comunità cristiana, la natura della fede e l’intelligibilità della natura e della storia, dovrà sempre fare appello in qualche grado ai risultati della scienza. Essa sarà tanto più vitale e significativa per l’umanità quanto più saprà fare suoi in profondità questi risultati”
Ma se la fede cerca la scienza e ritiene essenziale essere in armonia con le sue prospettive, possiamo dire la stessa cosa della scienza? La fede può rendere un servizio alla scienza?
Vista l’autonomia del metodo scientifico, certamente la scienza segue le sue strade e non ha bisogno né della teologia né della filosofia per formulare una teoria scientifica.
C’è da notare però che uno dei più grandi trattati di fisica di tutti i tempi, i Principia di I.Newton, risente fortemente di concetti metafisici e teologici nella formulazione delle idee di spazio e di tempo. E questo non è un caso isolato! In molti fisici è possibile riscontrare una relazione tra le loro visioni filosofiche e i programmi di ricerca. Un caso classico è quello che vide contrapposti Ampère e Oersted circa la natura delle attrazioni tra fili percorsi da correnti elettriche. In Keplero visione filosofica, teologia e ricerca della struttura del sistema dei cieli convivono in una unità e armonia mai più raggiunte.
La domanda deve essere allora formulata in modo diverso. Non “la fede può rendere un servizio alla scienza?” ma ” la fede può rendere un servizio allo scienziato?”. Certamente ogni scienziato ha una propria filosofia e questa filosofia influenza le sue prospettive, anche quelle scientifiche. Si può dire lo stesso della fede?
A questa domanda rispondiamo, ancora una volta, con le parole di Giovanni paolo II: “Gli scienziati, come tutti gli esseri umani, dovranno prendere decisioni su ciò che in definitiva dà senso e valore alla loro vita e al loro lavoro; faranno questo bene o male, con quella profondità di riflessione che si acquista con l’aiuto della sapienza teologica, o con una sconsiderata assolutizzazione delle loro conquiste al di là dei loro giusti e ragionevoli limiti”.
Il credente può indicare all’uomo di scienza il limite di domande alle quali la scienza non può dare risposte. Sono le domande più profonde che riguardano il senso del bene e del male, il senso dello stesso fare scienza, i problemi etici legati all’utilizzo tecnologico della scienza.
Se il credente è invitato dalla scienza a ripensare continuamente la propria fede, lo scienziato è invitato continuamente dalla sapienza teologica a non assolutizzare il proprio lavoro. A non fare dire alle proprie teorie quello che non possono dire e che dipende invece dalle posizioni filosofiche dello scienziato.
Oltretutto c’è una cosa che molti scienziati non vogliono sentirsi dire. Apparentemente sembrerebbe che non ci possa essere alcuna relazione tra due atteggiamenti dello spirito umano così lontani tra loro: scienza e fede. Da una parte la ricerca razionale, il dubbio sistematico, il confronto continuo con i dati sperimentali, la richiesta alla comunità degli scienziati di critiche e obiezioni che evitino “allucinazioni” teoretiche; dall’altra la fiducia, l’affidamento a testimoni, la ricerca di una certezza soggettiva che supplisca alla distanza tra le argomentazioni e l’oggetto della fede. In realtà, come ben aveva messo tra i primi in evidenza M.Polanyi in Conoscenza personale (ed. Rusconi), senza fede non è possibile raggiungere conoscenza alcuna. Un atteggiamento fiduciale è necessario, perché non si parte dal nulla. Apparteniamo ad una cultura particolare, a tradizioni e stili di pensiero alle quali ci affidiamo per poter cominciare il nostro personale percorso di conoscenza (vedi anche la raccolta di articoli in M.Polanyi, Fede e ragione, Morcelliana, 2012). Anche lo scienziato “riceve” dalle università, dai maestri, dai direttori dei gruppi di ricerca particolari stili di ricerca che accetta, salvo poi a cercarne di personali. La fiducia e l’affidamento costituisce la base e l’origine del nostro conoscere, cui si aggiunge poi la riflessione personale, la messa in questione di quanto ricevuto, i ribaltamenti percettivi e concettuali. In definitiva, si può dedicare la propria vita alla fatica della ricerca, a volte andando contro luoghi comuni è opinioni scientifiche standard, senza una fede robusta, per lo meno, sulla intelligibilità della natura? Nella battaglia per la razionalità, portata avanti da tanti scienziati che si dichiarano non credenti o agnostici, non c’è un impegno morale che la scienza non può giustificare e che equivale ad un atto di fede?
C’è poi una fiducia che rende sensato il suo lavoro, che è argomentabile – ma anche la fede religiosa lo deve essere – ma non ricavabile da “sensate esperienze e certe dimostrazioni”, per dirla con Galileo. Si tratta della fiducia nella ragionevolezza del suo lavoro, nella permeabilità della natura alla intelligenza, che per alcuni scienziati diventa una vera e propria professione di fede filosofica di stampo platonico. La ricerca scientifica, come attività umana, sottosta alle regole generali della acquisizione e trasmissione della conoscenza tra gli umani.
E’ quanto asseriva G.P.II nella lettera citata: “Può anche la scienza trarre vantaggio da questo interscambio? Sembrerebbe di sì. La scienza infatti si sviluppa al meglio quando i suoi concetti e le sue conclusioni vengono integrati nella più ampia cultura umana e nei suoi interessi per la scoperta del senso e del valore ultimo della realtà. Gli scienziati non possono perciò disinteressarsi del tutto di certi argomenti di cui si occupano filosofi e teologi. Col dedicare a questi argomenti un po’ dell’energia e dell’interesse che essi mettono nelle loro ricerche scientifiche, possono aiutare altri a scoprire più pienamente le potenzialità umane delle loro scoperte. Essi inoltre possono valutare da loro stessi che queste scoperte non possono mai costituire un sostituto valido per quanto riguarda la conoscenza delle verità ultime. La scienza può purificare la religione dall’errore e dalla superstizione; la religione può purificare la scienza dall’idolatria e dai falsi assoluti. Ciascuna può aiutare l’altra ad entrare in un mondo più ampio, un mondo in cui possono prosperare entrambe” (G.P.II, cit).
L’ultima domanda da porsi è se questo dialogo necessario è anche possibile. La cosmologia moderna non rende inutile la creazione del mondo? La teoria dell’evoluzione non è in contrasto con la convinzione che esista una specificità umana? Le neuroscienze non rendono inutile l’anima?… In questo breve articolo non possiamo entrare nel dettaglio di questioni sulle quali tanti studiosi riflettono.
Per il bene di tutti, però, è necessario che scienziati e credenti dialoghino tra loro, con pazienza e rispetto, per costruire una visione del mondo e dell’uomo più ricca e capace di dare risposte non riduttive ai grandi interrogativi di sempre.
Alfio Briguglia
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