di Valentina Chinnici
Al Liceo Rosmini di Grosseto bisognava pagare lo stipendio di febbraio a undici docenti supplenti. Dei dodicimila euro necessari, il Ministero ne aveva erogati solo cinque mila, pertanto, come ha spiegato ai giornali il dirigente amministrativo del liceo, “i docenti sono stati messi in ordine alfabetico, è stata estratta una lettera, e abbiamo cominciato a pagare a partire da quella lettera”. Per garantire la trasparenza, come si fa nelle migliori lotterie, la procedura si è svolta alla presenza delle Rappresentanze sindacali della scuola, perché fosse chiaro che non c’era nessuna forma di favoritismo.
La notizia fa sorridere, ma è un sorriso amaro, da tanti punti di vista. In Italia, stima la Flc Cgil, 3.000 supplenti a fine mese non ricevono lo stipendio e devono attendere settimane o mesi. Io stessa, chiacchierando con alcuni colleghi precari, mi sono accorta per caso di come questa realtà sia diffusa anche a Palermo. Decine di supplenti lavorano senza avere nessuna certezza su quando riceveranno lo stipendio, che può arrivare anche dopo tre mesi. Il sorriso dunque è amaro, amarissimo, e non solo perché viene leso un diritto di una categoria particolarmente fragile di lavoratori. Ma anche perché questi lavoratori sono quelli che hanno a che fare, quotidianamente, con i nostri bambini e i nostri ragazzi. Alle nostre nuove generazioni, questi insegnanti precari sulle cui fragili spalle si regge di fatto il sistema scolastico italiano (sono oltre 300 mila!) dovrebbero infondere fiducia nel futuro, voglia di studiare, entusiasmo nel raggiungere i traguardi scolastici e universitari. Ma la loro stessa condizione appare agli occhi dei giovani studenti come la negazione di tutto questo: a che servono tutti i sacrifici che ha fatto il prof, a che gli è servita la laurea se a 40 anni non sa neanche se e quando riceverà i suoi 1000 euro?
Il Ministero della Pubblica Istruzione si è risentito per la modalità lotteria con cui si sono industriati a Grosseto: non giova all’immagine della scuola. Certo, ma la “riffa” è solo la punta dell’iceberg di una situazione di discredito assoluta di tutto quanto afferisce alla Scuola italiana. E questo discredito viene da decenni di politiche miopi che non hanno mai compreso che un paese si risolleva puntando appunto su istruzione e formazione. Con che animo i precari dovrebbero pagarsi i necessari corsi di formazione, partecipare a fondamentali iniziative di aggiornamento, quando deve centellinarsi i soldi per i libri e per la benzina? Quando vivono attaccati al cellulare sperando che la data effettiva del parto della fortunata collega titolare sia spostata in avanti rispetto a quella presunta e magari che la neo mamma decida di trascorrere qualche settimana in più col proprio pargolo?
Ridare dignità ai formatori dei nostri figli perché si ricordino di essere degli intellettuali, che devono studiare, aggiornarsi e mediare la loro cultura è il passo necessario perché il nostro triste paese torni, un giorno, a volare alto.
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