Se questo è amore

Loading

Foto di Nadine Shaabana su Unsplash

Il dramma dei femminicidi e la «cultura del patriarcato»

Forse mai come in occasione del brutale assassinio di Giulia Cecchettin da parte del suo ex fidanzato, Filippo Turetta, l’opinione pubblica italiana era stata così profondamente scossa dal tragico ripetersi dei cosiddetti “femminicidi”, intendendo con questo termine «una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna proprio perché donna (…) in un contesto sociale che permette e avalla la violenza degli uomini contro le donne» (D. Russell, nel libro Feminicide).

Ed era ora, perché di anno in anno si rinnova il pesante tributo di sangue versato nel nostro paese dalle donne a una cultura che le vuole vittime proprio nel contesto dei rapporti familiari o affettivi in cui esse dovrebbero essere più al sicuro: 116 sono state uccise nel 2020, 119 nel 2021, 126 nel 2022, 106 fino ad oggi nel 2023. Non possiamo rassegnarci a questo massacro sistematico. Qualcosa bisogna fare. Ma che cosa? La risposta dipende dalla lettura che si dà del fenomeno e delle sue cause.

Quella che ne stanno dando univocamente i mezzi di comunicazione, le associazioni femministe e la grande maggioranza delle persone riconduce la responsabilità di questa piaga non solo e non tanto ad un problema di pubblica sicurezza, quanto ad un clima culturale, e precisamente alla «cultura patriarcale» ancora dominante nel nostro paese. E’ questo il bersaglio obbligato di innumerevoli dichiarazioni, interviste, manifestazioni.  

In senso più generale, con questa espressione si intende una cultura dove ancora le donne sono imprigionate in stereotipi e ruoli di genere che impediscono loro di esprimere liberamente la loro identità e di realizzare le loro potenzialità.

A cui corrispondono meccanismi sociali di esclusione o di sottovalutazione, dal più basso livello di retribuzioni a parità di prestazioni, al rallentamento nelle carriere, fino alla esposizione a molestie sessuali di vario tipo.

In riferimento più specifico al dramma dei femminicidi, la «cultura del patriarcato» sarebbe caratterizzata da una «mascolinità tossica», che porta gli uomini a pretendere il controllo delle donne con cui hanno un legame affettivo, mantenendole in uno stato di totale subordinazione e reagendo ad ogni loro tentativo di indipendenza con inaudita violenza.

Precisando che di questo veleno sono sottilmente pervase le stesse donne, a cominciare dalle madri che lo alimentano e lo giustificano nei loro figli maschi, e a finire con le mogli e le compagne, spesso portate a giustificare e a coprire gli abusi, fisici e psicologici, a cui sono sottoposte da parte di mariti e partner.

Contro la «cultura de patriarcato», si riconosce, non basta fare cortei e manifestazioni di protesta, come quelli che si sono moltiplicati e sono stati programmati in tutta l’Italia dopo l’uccisione di Giulia. Bisogna cambiare la mentalità. Perciò governo e opposizione si sono trovati d’accordo, per una volta, nella prospettiva di introdurre una sistematica educazione all’affettività nelle scuole.

Ma il problema è davvero la logica patriarcale?

È corretta questa diagnosi? Certo, che esista ancora nel nostro paese, malgrado i grandi progressi realizzati in questi anni e alcune vistose eccezioni, il problema di una sistematica tendenza a penalizzare le donne nel lavoro, nella politica, nella vita economica, è difficile negarlo.

Anche se a capo del governo e dell’opposizione in Italia ci sono due donne, il ruolo femminile a livello pubblico è ancora decisamente sottodimensionato rispetto a quello maschile. Se è questo che si intende per «cultura del patriarcato», è senz’altro giusto continuare la lotta ormai più che secolare per arrivare a sconfiggerlo.

Se però ci si riferisce al fenomeno dei femminicidi, sembra legittimo avanzare qualche serio dubbio sul fatto che proprio essa ne sia la causa ultima. Se non altro perché dalle statistiche (i dati disponibili si riferiscono al 2020) risulta che il numero di omicidi volontari commessi da familiari o (ex) partner ogni 100mila donne nei Paesi UE è stato maggiore in Germania (0,53%), nei Paesi Bassi (0,45%) e in Francia (0,43%) che non in Italia, dove si è fermato allo 0,32%, di poco al di sopra di quello della Svezia (0,25%).

Dobbiamo pensare che la «cultura del patriarcato» sia dominante – più che in Italia – in questi paesi, notoriamente caratterizzati da una forte emancipazione femminile?

Se il problema dei femminicidi è comune al continente europeo (prescindendo, evidentemente, da ciò che accade in altri, come l’Asia e l’Africa, dove ovviamente esso ha matrici del tutto diverse, di cui qui non possiamo occuparci), deve esserci qualche ragione che dipende da fattori culturali presenti, ancora più spiccatamente che in Italia, negli altri paesi dell’Europa. E questo non sembra proprio poter essere la sopravvivenza del patriarcato.

Tanto più la tendenza che sicuramente caratterizza la mentalità e i costumi, in questi paesi e sempre più anche nel nostro, è esattamente il contrario della logica familista in cui il patriarcato in passato affondava le sue radici e si manifesta, piuttosto, nel prepotente emergere della figura del single, sempre più svincolata dalla rete di legami vincolanti entro cui le persone si identificavano.

Emblematica la crisi dei vincoli familiari. Ormai in Europa le famiglie formate da una sola persona sono più numerose di quelle costituite da una coppia con figli. Nei paesi europei nel 2021 sono state il 35,9 %, in Germania e Francia il 41 %, in Svezia al 50,1 %). In Italia sono ancora solo 33,2 % – contro il 31,2 % di quelle mononucleari tradizionali, ma nel 2000 erano ancora solo il 24,0 % e il trend non lascia dubbi su quale sia la direzione in cui si procede.

C’è da chiedersi, a questo punto, se il fenomeno dei femminicidi dipenda davvero dalla «cultura patriarcale» o non sia piuttosto, al contrario, la conseguenza del suo dissolversi.

Una dissoluzione che da un lato ci ha liberati, fortunatamente, dalla figura soffocante del “padre-padrone”, dall’altro però – invece di dar luogo a forme comunitarie, in cui il singolo possa essere valorizzato nella sua unica e irripetibile originalità, non malgrado i legami con gli altri, ma grazie ad essi – ha dato luogo a un individualismo selvaggio, di cui proprio il trionfo del single è l’espressione.

Perché quello che si verifica oggi nella violenza sulle donne non è tanto – come in passato – la loro sottomissione a meccanismi collettivi di potere gestiti dagli uomini in funzione del gruppo (si pensi alla monaca di Monza, sacrificata dal padre agli interessi della famiglia), quanto piuttosto lo sfogo di una radicale insicurezza e frustrazione individuale del maschio, ormai esposto dalla emancipazione femminile alla vittoriosa concorrenza che le donne sono sempre più in grado di svolgere in tutti i campi.

A dispetto dei frequenti riferimenti polemici dei commentatori al medioevo, quella con cui oggi dobbiamo fare i conti non è la logica medievale, ma quella neocapitalista del mercato, non a caso ancora più diffusa in Germania e in Olanda che non da noi.

L’amore al tempo dell’individualismo

Il concetto medievale e cristiano di amore come dono di sé – proteso al bene dell’altro – era sempre rimasto un ideale in pratica spesso contraddetto proprio dalla struttura patriarcale della società. Ma, nel trionfo dell’individualismo, è ormai dimenticato, sostituito, nel modo pensare e di sentire comune (ferma restando la felice realtà di tante eccezioni), da quello che lo identifica con una ricerca autoreferenziale di appagamento delle proprie pulsioni, di cui la persona “amata” è in realtà solo lo strumento.

L’immagine che si prospetta è quella del “buco nero”, che attira tutto ciò che entra nella sua orbita, per fagocitarlo e distruggerlo.

Questa trasformazione culturale non riguarda, ovviamente, solo gli uomini, ma anche le donne, esposte anche loro, come il sesso maschile, a scambiare l’amore per l’altro (il medioevo lo chiamava “amore di benevolenza”) con l’amore di sé attraverso l’altro (il medioevo lo chiamava “amore di concupiscenza”).

A fare scattare il meccanismo della violenza di genere, da parte dei primi, è il corto circuito fra un passato ancora fresco in cui le strutture sociali garantivano all’uomo una indiscussa supremazia sia nel lavoro che nei rapporti affettivi – e un presente che la rimette radicalmente in discussione, determinando in molti maschi l’insicurezza e la frustrazione di cui prima si parlava.

Sui giornali si è a lungo dibattuto, in questi giorni, se Filippo Turetta sia un bravo ragazzo che è diventato un mostro o un mostro che si è sempre fatto credere un bravo ragazzo. Probabilmente è solo una persona che – al pari della maggior parte degli altri ragazzi – non ha mai scoperto l’amore come dono di sé e ha vissuto il suo rapporto con la propria fidanzata come il naufrago lo ha con la tavola a cui si aggrappa per non annegare. Un modo sbagliato di concepire e vivere l’amore.

Per superare questo, evidentemente, i cortei e le manifestazioni possono avere effetti molto limitati.  Servirebbe, se mai, una seria riflessione su ciò che intendiamo quando, oggi, parliamo, a ogni pie’ sospinto,  di questo sentimento. Ma è più facile protestare che pensare.

E anche l’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole rischia di fare la fine di quella sessuale (spesso già presente, pur in modo occasionale), ridotta alla fine all’istruzione sull’uso degli anticoncezionali, se non avremo il coraggio di rimettere in discussione, piuttosto che i “mostri” evidenziati dalla cronaca, il nostro modo di pensare e, in definitiva, noi stessi.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *