“Sia fatta la tua volontà” – Commento al Vangelo Domenica delle Palme (Lc 22, 14 – 23, 56)

Loading

“Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte. 
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto” (Salmo 21).

“Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi

io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro»”(Isaia 50,4-7).

Rivediamo Gesù in questi ultimi momenti di vita, preannunciati profeticamente ed esattamente sia da Isaia, sia dal salmo 21, che fanno del nostro Gesù il vero nostro Re, il vero nostro Dio, il vero Uomo.

 Aveva gioito Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme tra rami di ulivo e palme, tra gli osanna e i suoni di cetra; si era riscaldato il cuore a pensare forse a un epilogo diverso da quello che era ben scritto nella sua mente, nel suo cuore, l’epilogo amaro e crudele che dà il senso alla sua venuta; aveva cercato pure di farlo capire ai suoi come l’evento necessario e ineludibile, che al tempo non avevano inteso, perché troppo insensato e troppo folle come lo è anche per noi adesso.

C’è una continua oscillazione nel cuore di Gesù tra una sofferta obbedienza: “Sia fatta la tua volontà” , e la rinuncia alla missione salvifica: “Padre se puoi allontana da me questo calice”.  Prega nell’orto degli ulivi perché precaria è la sua condizione, piange, soffre, invita i suoi a pregare e non dormire perché sente già il rumore dei chiodi infissi nelle sue mani e nei suoi piedi, la pesantezza della croce, le lamentazioni di Isaia,  insieme  a una certezza che lo consola:

“Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso” (Isaia)

Prega perché non resti confuso, perché i limiti del cuore umano non siano di ostacolo alla grandezza che sta per compiersi: così comincia la straziante fine di Gesù.

La storia, cominciata con una stella e una luce sopra una mangiatoia, termina   pure con una mensa

Questa volta Gesù vuole lui stesso mangiare la pasqua ebraica con i suoi, riscaldarsi con il calore della mensa, sentirsi attorno ai propri cari a tavola – e chi non vorrebbe, soprattutto quando la paura e l’angoscia ci assale. Su quella tavola si rendono veri e manifesti i doni offerti dai magi dinanzi alla mangiatoia: l’incenso della sacralità, l’oro della regalità, la mirra dell’umanità sofferente.

La tavola è così tanto benedetta che in essa si manifesta la sacralità di un Dio che può offrire con la tenerezza di un amico il pane e il vino, cibo e bevanda di grazia.

E solo un vero re fa in modo di non lasciare mai soli i suoi discepoli, perché lui ci sarà e rimarrà per sempre. Una regalità la sua che  sarà consacrata da una corona di spine, a indicare l’umanità profonda di un  amore più forte della morte.

Gesù incontra uomini e donne durante queste ultime sue ore. Alle donne giunge un monito: “Non piangete su di me, piangete per i vostri figli”, per le tragedie umane, per le sofferenze che verranno e che dissolveranno le certezze, che assaliranno i cuori degli uomini, che confonderanno le menti, e ognuno non comprenderà più l’altro.

E poi gli uomini:

Pilato, un nome che rimarrà per tutti i secoli nella professione di fede dei cristiani, lui che ha dubitato della colpa di Gesù,  ma a cui   è mancato il coraggio di testimoniare la verità, è l’emblema dell’uomo di sempre che, all’assunzione di responsabilità, preferisce il cedimento alle grida della massa informe e insipiente che chiede “crucifigge”.

Simone di Cirene, l’uomo che torna dai campi a cui viene addossata sulle spalle la croce. La croce sulle spalle di Simone è quella anche  dei tanti medici, dei tanti paramedici, dei tanti familiari che camminando accanto a chi sta per morire sperimentano loro stessi il calvario, comprendendo il senso vero di quella “sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare” di cui parlava Francesco d’Assisi, ma contestualmente scoprendo la verità e la   bellezza dei versi di Turoldo: “Non è tutto un vivere e insieme un morire, ciò che conta non è questo, conta che siamo eterni che dureremo che sopravviveremo  di vita in vita di morte a vita”(Canti ultimi).

E infine il malfattore che solo negli ultimi istanti della sua vita scopre la verità in colui che immeritatamente sta soffrendo con lui; la verità rimasta nascosta da sempre nella sua vita, sepolta da ogni genere di nefandezze e ignominie, solo adesso spazzate via da un perdono, invocato nel grande buio della croce e concesso dall’uomo-Dio che fino alla fine dona il suo ultimo respiro per aprire il paradiso a lui e a tutti quelli che “pur non avendo visto, crederanno”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *