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Il Simbolo tra comunicazione social e Vangelo

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Aggiungere una faccina a un messaggio.

Lo facciamo naturalmente tutti, persino chi una emoticon non l’ha mai vista, essendo questi pittogrammi vocalizzati delle sintesi che consentono a ciechi ed ipovedenti di usare i telefoni di ultima generazione.

Quel simbolo aiuta a inquadrare un messaggio scritto guidando il lettore nella sua interpretazione; così mentre si rinuncia, per la brevità della comunicazione social e la generale riduzione del vocabolario dei parlanti, alla varietà del linguaggio alfabetico, si affida anche a un pittogramma analogico la volontà di comunicare.

Si tratta, però, di una comunicazione unidirezionale e, in qualche modo, binaria: il mittente usa il simbolo per dire ciò che il segno non può comunicare: “Guarda che sto scherzando” e mette la faccina sorridente, in modo che il destinatario legga quel affermazione in senso giocoso.

Questi simboli, rigorosamente ordinati nelle nostre tastiere in categorie: cibi e bevande, animali e natura, attività ecc., parlano; altri sono invece muti per i più ormai incapaci di leggerli. È questo, solo per fare un esempio, il caso del pesce che campeggia nella prima iconografia cristiana, rimandando sia ai molteplici passi evangelici in cui si parla della pesca, sia alle lettere della parola greca che lo indica.

Ciascuna di queste compone la frase: Gesù Cristo, Figlio di Dio, nostro Salvatore. 

Questo simbolo, a differenza della faccina aggiuntiva a un messaggio scritto, rivela un’eccedenza irriducibile.

È, se stiamo al etimo greco del termine, gettato nella realtà per donarle un Vangelo, una notizia buona che viene a vivificarla.

L’arte nasce così: ma se una metopa, un angelo, i tradizionali stilemi con cui un personaggio è rappresentato, come l’Evangelista Giovanni nell’atto di scrivere o lo Spirito Santo che plana in forma di colomba, divengono muti cosa resterà della bellezza? 

Saranno le future generazioni ancora in grado di leggere i messaggi della Cappella Sistina o si limiteranno a una estatica meraviglia di chi esce da sé ma non possiede più le categorie per entrare nella interpretazione necessariamente stratificata di un opera d’arte?

Photo by 卡晨 on Unsplash

Una buona ora di Religione Cattolica che sappia utilmente dialogare con le altre discipline scolastiche può percorrere questa via del simbolo.

Giocare ad una sorta di caccia al tesoro in cui l’adolescente sia chiamato a scoprire, per la prima volta, una ricchezza sconfinata che troverà nelle opere d’arte e potrebbe esondare nella sua stessa vita.

Guadagnerà così il rifiuto di una realtà povera e piatta in cui un pesce è solo un pesce: comprenderà come, in quel contesto, al pesce era affidato un messaggio ulteriore. Nella Sistina leggerà non solo una vaga e generica bellezza, ma il connubio di un ritrovato classicismo e messaggio cristiano.

Il simbolo, oltre la faccina che lo guida in un interpretazione monodirezionale, sarà per il nostro adolescente la cifra di un reale certo complicato, ma per questo ricco, vivificato, concimato come un campo da coltivare.

E infine, sempre il nostro allievo, farà la scoperta più bella: che quel campo può essere la sua anima, che coltivata diviene colta, purché egli accetti l’esodo da quel mondo binario in cui un pesce è solo un pesce. Un mondo poveramente rassicurante in cui la paludosa comunicazione dei social, la povertà sconfortante del dibattito politico, l’ideologismo a buon mercato ancora in voga nella scuola rischiano di farlo ristagnare.

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