Il signor Palomar fa la coda in un negozio di formaggi, a Parigi. Vuole comprare certi formaggini di capra che si conservano sott’olio in piccoli recipienti trasparenti, conditi con varie spezie ed erbe. La fila dei clienti procede lungo un banco dove sono esposti esemplari delle specialità più insolite e disparate. E un negozio il cui assortimento sembra voler documentare ogni forma di latticino pensabile; già l’insegna «Spécialités froumagères» con quel raro aggettivo arcaico o vernacolo avverte che qui si custodisce l’eredità d’un sapere accumulato da una civiltà attraverso tutta la sua storia e geografia.
Tre o quattro ragazze in grembiule rosa accudiscono i clienti. Appena una è libera, prende a carico il primo della fila e l’invita a dichiarare i suoi desideri; il cliente nomina e più spesso indica, spostandosi per il negozio verso l’oggetto dei suoi appetiti precisi e competenti.
Italo Calvino è unanimemente considerato il nostro classico del secondo Novecento. Con lui concludiamo questo percorso fatto di “squarci” sulla letteratura italiana dalle origini ai giorni (quasi) nostri. A scuola Calvino lo si sfiora, e difficilmente si affronta la sua seconda fase, quella degli anni Settanta e Ottanta. La fase sperimentale, quella segnata dalle questioni epistemologiche e dalla complessità. Eppure il brodo cognitivo in cui i nostri ragazzi nuotano è proprio quello della post-modernità (oggi incombe la post-verità), che Calvino esplora attraverso i suoi romanzi “strani”. Uno di questi, scritto qualche anno prima della sua morte, è “Palomar” (1983).
Palomar è il nome di un osservatorio astronomico americano. Qui diventa l’appellativo di un signore alquanto paradossale, che si comporta in modo strano nelle varie scene in cui lo colloca il nostro autore. Palomar è un appassionato della conoscenza, ma è anche un frustrato della conoscenza perché la sua ansia classificatoria e totalizzante si scontra con il labirinto della realtà così come gli si presenta. E siamo appena negli anni Ottanta!
Venti anni prima un celebre saggio comparso sul n.5 della rivista “Menabò” conteneva la riflessione di Calvino sul labirinto. Significativamente il testo aveva come titolo “La sfida al labirinto” e poneva ai contemporanei l’istanza di una rinnovata razionalità capace di non trovare scorciatoie indebite alla labirinticità del reale. Il labirinto va sfidato con la ragione e lo spirito scientifico. Questo il lascito calviniano.
Di Palomar qui presento un brano che solitamente risulta gradito ai ragazzi per il suo sottile umorismo. Ai ragazzi suona gradevole – si vide già con Pirandello – quanto sa di grottesco nelle situazioni umane. Palomar sta a Parigi in un raffinatissimo negozio di formaggi presentati in modo supersofisticato. Ci sono altri clienti in questo “museo”, e quella che gli si presenta davanti è una vera e propria vastissima enciclopedia all’interno della quale egli deve compiere la sua scelta. Deve capire quale o quali formaggi saranno di suo gradimento. E comprarli.
Dramma della conoscenza. Palomar deve cercare di mettere ordine al caos ma vive il tormento della complessità. “Non è questo il tipo di conoscenza che il signor Palomar è più portato ad approfondire: a lui basterebbe stabilire la semplicità d’un rapporto fisico diretto tra uomo e formaggio. Ma se lui al posto dei formaggi vede nomi di formaggi, concetti di formaggi, significati di formaggi, storie di formaggi; contesti di formaggi, psicologie di formaggi, se – più che sapere – presente che dietro a ogni formaggio ci sia tutto questo, ecco che il suo rapporto diventa molto complicato.”
La dimensione formativa si profila. L’istanza di semplificazione è contrastata dalla circostanza che ogni cosa che si presenta ai nostri occhi, così come accade con i nomi delle cose, apre a mondi molto più complicati, che non emergono in superficie. Palomar prende appunti, mette in ordine, classifica, organizza. Egli vuole controllare la pluralità e la diversità dei formaggi. La sua ragione è attivissima.
Però lo scrittore avverte che “questo non l’avvicinerebbe d’un passo alla vera conoscenza, che sta nell’esperienza dei sapori, fatta di memoria e d’immaginazione insieme, e in base ad essa soltanto potrebbe stabilire una scala di gusti e preferenze e curiosità ed esclusioni”. Per conoscere davvero occorre entrare nelle cose, esplorarle, contestualizzarle, approfondirle. Ai nostri studenti spesso “surfisti” viene rappresentata la necessità di sapere essere anche “palombari” (le metafore sono di Baricco) per tentare, appunto, la sfida al labirinto.
Palomar vive lo scacco del conoscere classificatorio e nomenclatorio. Egli vorrebbe che le cose coincidessero con l’apparenza delle cose perché questo gli consentirebbe di conoscere tutte le cose in modo ordinato. Ma le cose stanno diversamente, ed egli se ne rende conto quando la commessa lo chiama a scegliere il formaggio. É in quel momento che tutta la sua conoscenza ordinata si rivela fallace, perché “l’ordinazione elaborata e ghiotta che aveva intenzione di fare gli sfugge dalla memoria; balbetta; ripiega sul più ovvio, sul più banale, sul più pubblicizzato, come se gli automatismi della civiltà di massa non aspettassero che quel suo momento d’incertezza per riafferrarlo in loro balìa”.
Così si conclude l’episodio. Con uno scacco del protagonista, che cerca di dotarsi, qui come in altri passi del romanzo, di strumenti e dispositivi per abbracciare il reale nella sua completezza. Ma l’enciclopedismo e la totalità gli sono preclusi. La scena finale dell’episodio dei formaggi getta un’ombra inquietante sulla capacità della società dei consumi di annebbiare ogni velleità di conoscenza puntuale e sistematica. Ci vogliono altri strumenti e altre attitudini per raccogliere la sfida.
E la sfida calviniana, che ci colse ancor giovani, resta aperta nel tempo dei Millennials iperconnessi ed ipersurfisti. Appunto: riafferrati in balìa della civiltà di massa.
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