[…] A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d’un superiore, l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell’animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione.[…]
Il romanzo di Alessandro Manzoni, vero paradigma narrativo della nostra letteratura, da tempo è oggetto di vivaci discussioni tra gli insegnanti. Sostenitori e detrattori non tanto – cosa ovvia – dello spessore artistico del romanzo, quanto della sua “precettata” utilizzazione nelle seconde classi della scuola superiore si battono periodicamente a duello con nessun risultato. Le ultime Indicazioni ministeriali per i Licei – che però in quanto “Indicazioni” non dovrebbero precettare proprio nulla – prescrivono ancora la lettura del romanzo nelle classi dei nostri quindicenni. Che poi ciò realmente avvenga in classe è un altro discorso.
Che sia un capolavoro nessuno ha dubbi. Un conto è il giudizio letterario, un altro è la fruibilità formativa del testo nell’età della piena adolescenza. Per risultare formativo un testo deve saper parlare alle sensibilità di chi lo legge. Curiosamente non c’è chi discuta della fruibilità formativa dei testi che fin qui siamo andati scrutando: chi metterebbe in dubbio lo spessore formativo di un Dante o di un Ariosto, pur appartenenti ad epoche più lontane del nostro romanzo? Eppure dei Promessi Sposi si discute. Non da ora ritengo che la discussione verta non sulla possibilità o sull’opportunità ma sull’obbligatorietà, che sempre suscita (giusto) imbarazzo.
La mia opinione è che non bisognerebbe obbligare la lettura dei Promessi Sposi ai quindicenni, ma lasciare liberi gli insegnanti che hanno la capacità di far “parlare” il testo. L’obbligo di lettura infatti non porta molto lontano. Forse un tempo, ma oggi certamente no. Pennac ce l’ha insegnato, nel suo Come un romanzo. I nostri allievi imparano se riescono ad essere coinvolti, e il motivo è evidente. C’è troppo da “imparare” oggi, e qualsiasi cosa la scuola voglia fare imparare deve trovare spazio tra tanti altri stimoli cognitivi. Non importa che questi siano più o meno “seri”. Ci sono, e occupano spazio. Se il sapere scolastico vuole trovar spazio, deve saper “prendere”. Diversamente è partita persa.
Ma anche a voler tentare l’avventura del testo manzoniano, ci si scontra col tempo a disposizione. Di lettura integrale non credo si possa parlare. Occorre apprendere l’architettura della trama, i suoi presupposti di poetica, e poi fare focus su brani altamente significativi, uno dei quali a mio parere è il capitolo 21, che contiene la celebre conversione dell’Innominato.
Gli allievi possono leggerlo fruttuosamente come paradigma di mutamento “dall’interno” di una vicenda umana e trarre occasione di riflettere e discutere proprio sul tema del cambiamento umano. Come cambia un umano? Come sfugge al determinismo dell’ambiente, dell’educazione e del carattere? Che umano è quello che rovescia il tavolo dentro se stesso?
La vicenda è nota. Lucia è stata rapita dagli uomini dell’Innominato con la compiacenza di Gertrude, madre badessa del convento in cui la ragazza era stata inviata per esser protetta dalle grinfie di Don Rodrigo. Il capitolo 21 narra dell’arrivo di Lucia al castello di questo boss e della sua prigionia. Dal punto di vista narrativo la vicenda appare chiusa. Nulla di esterno può sbloccarla. Gli antagonisti sono più forti degli aiutanti, secondo le categorie narratologiche che si insegnano a scuola. Non c’è alcuna ragione che induca a prevedere una liberazione di Lucia. Il suo destino è segnato. La vittoria del male è dietro l’angolo.
Il capitolo 21 a tanti potrà apparire come ingenuamente ottimista. Le cose nella vita vanno a finire ben peggio, come leggiamo dalle tristi cronache del nostro tempo. Questo è un vero e proprio sequestro di persona, ben noto ai ragazzi. E i sequestri di persona finiscono bene oppure male, spesso a seguito di interventi liberatori delle forze dell’ordine o di trattative di varia natura. Qui invece la cosa finisce bene perché accade un fenomeno straordinario di reset psicologico proprio all’interno del sequestratore.
La lettura del capitolo 21 si mostra sempre alquanto capace di attirare l’attenzione dei ragazzi, che si trovano davanti ad un colpo di scena non spettacolare, ma inesorabile. L’uomo nuovo sorge a giudicare l’antico. Il forte soccombe a se stesso. Manzoni insiste molto sul tema della compassione. Quando uno si trova inaspettatamente a soffrire con un altro. Nel nostro caso chi doveva far soffrire l’altro (l’altra) soffre con lui (lei). L’idea che chi è forte possa essere abitato dalla compassione forse è l’idea che la maschera che ci portiamo addosso è sempre a rischio di caduta.
Nel tempo in cui gli adolescenti predispongono le loro maschere per presentarsi al mondo, non è male tenere la barra del timone sulla capacità di scrutare se stessi per evitare che la maschera sociale – forse necessaria – diventi caricatura di se stessi. L’Innominato ha scoperto di avere vissuto tenendo una maschera che gli permetteva di soddisfare alcuni bisogni. Un gruppo di quindicenni può lavorare sui bisogni, sulla finzione, sulla compassione, su percorsi di crescita nell’autenticità. Quel signore prepotente, il principe dei bulli, è crollato sotto i colpi di se stesso. Scrutare il se stesso che si annida al di sotto della maschera non è partita formativa da sottovalutare al tempo dei social che mascherano tutto.
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