Squarci Letterari – “Non chiederci la parola” di Montale: l’insufficienza umana

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squarciNon chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che
non siamo, ciò che non vogliamo.

La poesia fa parte della raccolta Ossi di Seppia pubblicata nel 1925. Fa parte di quei testi che ritengo capaci, per la loro portata esistenziale, di mettere in movimento la riflessione dei ragazzi. Ma prima ovviamente occorre appropriarsi della “lettera”. Il poeta parla alla prima plurale, per dare al suo discorso un respiro universale. Il movimento del testo è in tre tempi, corrispondenti alle tre strofe. Nella prima si prendono le distanze da ogni possibilità di parola “chiara e distinta”, la parola che “dichiara l’animo” in modo preciso e definito, come la pianta dello zafferano (qui croco) il cui colore vivace si distingue su un prato polveroso. Un croco perduto, come la ginestra leopardiana che emana il suo profumo in mezzo alla devastazione del Vesuvio. Nel secondo tempo, si prendono le distanze da ogni approccio ottimistico e semplicistico alla vita. L’uomo che si fa una certa idea “sicura” di se stessa, e che crede di stare in pace con gli altri e con se stesso (i miti della nostra pubblicità), senza rendersi conto che la sua esistenza (la sua ombra) è proiettata su un muro scalcinato. Il prato è polveroso, il muro è scalcinato. Il croco è perduto. Nel terzo tempo si prendono le distanze dal discorso che spiega e illustra. Il poeta avvisa che quel tipo di discorso non è più plausibile – a parte qualche sillaba storta e secca -, e che tutto quel che si può dire è in negativo: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

I tre tempi sollecitano un’idea di insufficienza, di scarsità esistenziale, di aridità. Il prato polveroso, il muro scalcinato ed il ramo secco – che la retorica definisce “correlativi oggettivi” – fanno parte di un paesaggio interiore in cui non c’è più spazio né per la dotta elucubrazione sulla condizione umana, né per la stupida chiacchiera da marciapiede. L’umano rappresentato dal testo è al di là della parola e della sua rappresentazione, e qui ai ragazzi bisogna metter davanti un sentiero che porta a cogliere il Novecento, degno figlio di Leopardi, e quanto, lanciandosi oltre il Novecento, delinea le loro stesse radici più immediate. Montale in un altro testo lo chiamò “il male di vivere”. Ma non è discorso da depressi e sfigati, occorre chiarire in classe. Forse ci si deve spingere più in profondità per capire quanto ciascuno di noi è rappresentato da questo paesaggio dell’anima.

Intanto si potrebbe richiamare l’abisso dell’inconscio freudiano per avvicinarsi a quell’ “animo nostro informe”. Ciò a cui pensiamo di dare una forma attraverso le parole razionali, probabilmente forma non ha, o se ce l’ha sfugge alle nostre categorie. Il rapporto tra parole e interiorità nella prima strofa è posto come rapporto complesso. Dire le cose: che significa dire le cose, spiegare le cose, chiarire le cose? Un percorso di riflessione sul rapporto tra parole e cose può far scaturire in classe molte piste di approfondimento, filosofico, linguistico, artistico. Le cose possono eccedere le parole, e ben lo capiva il Dante dell’ultimo canto del Paradiso quando si scusava con i lettori per non riuscire a dire l’Eccedenza.

E a questa eccedenza delle cose segue la giusta avvertenza nei confronti di ogni superficialità, di ogni “sicurezza” che dimentica la realtà precaria dell’Umano. Ombra stampata su un muro scalcinato, il più nobile animale, homo sapiens, ridotto ad effimero dai contorni incerti. Anche le relazioni umane sono segnate dalle precarietà: l’uomo che pensa di essere “amico agli altri”. Ma chi sono veramente gli altri, e in che consiste l’amicizia di cui parla il poeta?

Non chiederci. Non domandarci. Primo e terzo tempo. Ai poeti, ma non solo a loro, anche agli insegnanti, ai genitori, agli educatori, ai sacerdoti viene da chiedere una parola risolutiva, che apra mondi chiusi, che costruisca scenari valoriali, certezze, verità indiscutibili. Il poeta auspica quel che oggi chiameremmo “profilo basso”. Chiedici piuttosto cosa è veramente no. Chiediamo ai ragazzi cosa veramente non sono e cosa non vogliono. Partiamo da una soglia al di sotto della quale, forse, c’è il non umano. Ripartiamo dai fondamentali dell’umano, senza voli pindarici.

A diciotto anni si ha il diritto-dovere di interrogarsi sulla condizione umana, e questo brano contiene la potenza giusta per entrare nelle teste. É sempre presentato come una dichiarazione di poetica, e lo é. La poesia cambia di segno, dice Montale. Al poeta non si può più chiedere la lettura “giusta” della realtà. Ma il testo si apre ad una lettura molto più profonda, che identifica l’impotenza del poetare tradizionale con l’impotenza del parlare tradizionale. Ed è curioso che quasi un secolo fa si dicesse qualcosa che ai ragazzi può apparire modernissimo, se letto come obiezione e contestazione a tutto il parlare e lo scrivere contemporaneo che appare mero flatus vocis celebrativo di un uomo del tutto finto.

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