Squarci Letterari: Paradiso, canto I, 121-141

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La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quieto
nel qual si volge quel c’ha maggior fretta;

e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.

Vero è che, come forma non s’accorda
molte fiate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,

così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;

e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.

Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.

Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quiete in foco vivo.

 

I canti di apertura delle rispettive cantiche, nella Commedia dantesca, sono i più importanti per la loro impostazione programmatica e paradigmatica. In questa rubrica ci siamo privati eccezionalmente soltanto del I canto dell’Inferno per la forza esistenziale che tutt’ora sprigiona il canto di Paolo e Francesca, ma per il Purgatorio ed il Paradiso i rispettivi primi canti rappresentano priorità formative ineludibili.

Eccoci dunque alla fine del I canto del Paradiso, cantica purtroppo alquanto trascurata nelle quinte classi delle nostre scuole superiori, forse per la difficoltà del linguaggio oppure per l’errata convinzione che quanto lì contenuto possa risultare troppo estraneo alla sensibilità dei nostri diciottenni. Ma le cose non stanno così. Vediamo perché.

Intanto il contesto da cui proviene il brano qui individuato. Dante ormai è guidato da Beatrice fin dagli ultimi canti del Purgatorio. Beatrice è raffigurata nel suo splendore teologico, come colei che è in grado di fissare la luce del sole, metafora del Bene e di Dio che ne è la sorgente. L’esperienza che Dante compie è quella del trasumanar, ovvero dell’abbandono della propria dimensione terrena. Oggi parleremmo di esperienza di leggerezza. Dante ascende con Beatrice stupefatto della propria leggerezza e della propria, si potrebbe dire, trasparenza. Egli comincia a sperimentare la beatitudine, che è la cifra esistenziale del Paradiso. Beatitudine, ragazzi: ma noi siamo beati alle volte? Cos’è questa frase che certe volte diciamo: “beato tu che….”?

Il paradosso di questo canto risiede nella rivisitazione delle nostre abituali idee di eccezionalità e di normalità. Se qui da noi la beatitudine è un fatto eccezionale, nell’esperienza di Dante rappresenta il compimento del naturale istinto umano, chiamato qui impeto primo, o spinta originaria, ancestrale. Si tratta di un paradosso che Dante autore fa emergere attraverso la spiegazione del funzionamento dell’universo, che Beatrice offre a Dante personaggio per chiarirgli quel che sta succedendo.

Dante è leggero. Non subisce più la gravità. Passa attraverso la materia. Perché? Che sta succedendo? Beatrice segue la razionalità di Tommaso d’Aquino e rappresenta a Dante il tendere di tutto quanto esiste verso Dio. Ogni elemento del creato realizza la propria natura, e nel realizzarla partecipa della grande razionalità dell’essere. Ad una quinta classe che ha appena studiato Leopardi risulterà interessante confrontare l’irrazionalità (apparente?) ed il cinismo della natura leopardiana delle Operette morali con la benefica provvidenza dantesca. Per Leopardi l’essere è in-sensato. Per Dante è “ordine”. E per noi cos’è? Caos? Razionalità? Liquidità? Ne parliamo in classecanto_xxxiii_22112012-82626.

E qui arriva la nostra pericope. La provvidenza dispone la quiete radicale del Paradiso e verso questa quiete Beatrice e Dante si muovono, come attratti da una gigantesca calamita: come a sito decreto. E ciò avviene perché Dante è liberato. Privo d’impedimento, dirà il testo. Liberato da cosa? Cosa impedisce a noi umani di essere felici? O meglio: cosa crediamo che sia per noi la felicità? Lo stesso testo fa un’incursione nell’al di qua, da cui ormai Dante ha preso le distanze. Talvolta la materia umana è sorda e sceglie di non assecondare il proprio impeto primo, perché sedotta da falso piacere.

Cos’è la vita umana? E cos’è l’uomo? Quali sono i desideri umani? Le domande radicali suscitate dal testo sono queste. Che vuol dire falso piacere? Si può affermare che il piacere non debba far parte delle nostre vite? Certamente no. Ma il testo ci sfida: piaceri veri e piaceri falsi, chiamando in causa tutta la riflessione filosofica antica, da Socrate, Platone e Aristotele ad Epicuro e agli Stoici, greci e romani, dunque anche a Seneca, sulla via che conduce alla rivisitazione cristiana di tutta la sapienza antica, condensata soprattutto in Paolo di Tarso ed Agostino di Ippona.

Beatrice sta dicendo che l’uomo è naturalmente orientato alla felicità e alla beatitudine. Che però hanno un prezzo, proprio quello che Dante è stato disposto a pagare, prima scrutando tutti i propri mostri (inferno) e poi lavorando duramente sui propri desideri per saperne prendere le distanze (purgatorio). E adesso? Adesso, argomenta Beatrice, Dante torna a casa, e non si deve meravigliare di questo: non dei ammirar lo tuo salir.

Notevole la chiusa. Chi si stupirebbe di un fiume che scenda da monte a valle? Nessuno, dicono i ragazzi, perché è un fatto naturale. Naturale. È questa la soglia. Quanto di naturale c’è nel nostro desiderare? Screening dei nostri desideri. Abbiamo sbagliato noi o ha sbagliato Dante? Dibattito aperto.

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