Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno
È trascorso soltanto qualche decennio, ma tra Dante e Petrarca passa un’epoca. L’ordine delle cose, celebrato da Beatrice nel I canto del Paradiso, cede il posto al caos dell’io che desidera, sbaglia, si pente e capisce. Una ritmica interiore moderna, quella propostaci dal mondo interiore di Petrarca, che sfida gli alunni su un terreno vicino e distante nello stesso tempo, il terreno del rapporto tra eros ed ethos, che fu già il campo di battaglia interiore dell’Enea virgiliano.
In classe vige sempre il dovere dell’informazione corretta. Che vige anche qui a beneficio di chi non sapesse o non ricordasse. Pertanto è da dire l’essenziale. Siamo davanti alla prima poesia del Canzoniere di Petrarca, una raccolta di 366 componimenti dedicati in larga misura al suo amore non corrisposto (pare) per una Laura. Si tratta di un sonetto che ha il sapore dell’introduzione e della conclusione nello stesso tempo. Nel testo, infatti, il poeta si rivolge ai suoi lettori come a coloro che entrano in contatto con la sua vicenda amorosa e che sono invitati alla compassione e al perdono. Il poeta è stato innamorato per lungo tempo. Ma ora ha capito che si è trattato di un errore, che gli ha procurato lo scherno della gente e la vergogna. Di tutto questo egli è pentito, e il pentimento gli fa comprendere l’inconsistenza dei piaceri della vita.
I nostri alunni stanno nell’aggettivo giovenile, unito ad errore. É forse una buona strada per farsi catturare dal testo. Cosa si intravede, qui, della condizione giovanile? I sospiri? L’oscillazione tra pianto e ragionamento? Le speranze? E tutto questo può legarsi al sentimento amoroso? Sostare sulle prime due quartine può significare compiere una vera e propria inchiesta esistenziale che ci rimanda al quinto canto dell’Inferno, già trattato in questa rubrica.
Il poeta prende le distanze da un passato fatto di sospiri. Nella prima delle due terzine aggiunge che questo suo modo di essere per lungo tempo fu oggetto di scherno tra la gente: favola. Perché? Che genere di visibilità doveva avere questo “sospirare”? Nel tempo dei social quale visibilità hanno i sospiri, se di sospiri ancor oggi si può parlare? I ragazzi sono molto sensibili al tema della vergogna, più di quanto non si immagini. Quando si perde la testa per qualcuno, soprattutto se quel qualcuno non corrisponde, è facile diventare bersagli di facezie da parte di compagni e amici. Al popol tutto favola fui gran tempo, scrive il poeta, e tutto questo gli procura vergogna. Vergogna di quel che è stato e di quel che ha fatto vedere.
Il tema della vergogna si sussegue da un verso all’altro. E nella seconda occorrenza è legato all’idea del vaneggiare. É un’idea spendibile educativamente, quella del vaneggiare, e dei suoi correlati attribuiti alle speranze e al dolore? Sperare, soffrire, è tutto un vaneggiare, un delirare? Perché? Oggi i ragazzi vogliono fare esperienza della vita e sono per nulla disposti a sentirsi dire che il loro sperare, il loro sospirare, il loro soffrire è “vano”. Ma hanno ragione. In realtà anche il poeta non rinuncia alla sua esperienza, se consideriamo che il giudizio di vanità è formulato soltanto a posteriori. È solo al termine di questa esperienza che egli può parlare di vaneggiamento. Come ne può parlare?
Vergogna, pentimento e consapevolezza. É la ritmica dell’ultima terzina che ci dice di un io sfinito di fronte al suo passato. Ma il passato l’ha vissuto, diranno i ragazzi, e nessuno doveva dirgli che stava sbagliando. Questo è l’oggi. Nessuno mi deve impedire di fare la mia esperienza, devo farmi male da solo prima di capire. Anche Petrarca era ben cosciente che si sarebbe fatto male. Ma è andato avanti, nell’inferno dei suoi desideri, senza un Virgilio che lo guidasse a uscirne o una Beatrice che lo liberasse dai suoi stessi desideri. Sempre in agguato, per giovani e adulti.
Petrarca si è fatto male e ha capito chiaramente molte cose. Ai ragazzi non si può chiedere di capirle prima del tempo. Ma forse questo testo un briciolo di prospettiva può offrirla anche a loro. Un relativizzare le questioni “di vita o di morte”, uno smorzare i toni quando si fanno feroci, un testimoniare, da adulti che a loro volta non hanno fatto finta di vivere, che ogni cicatrice si rimargina. E che anche il prof è diventato un’altra cosa crescendo, ma anche lui lo è diventato “in parte”: quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’sono.
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