Squarci Letterari – Pirandello: quando il cielo di carta si strappa

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Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo.
Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via:
– Frenesia, frenesia.
– Encefalite.
– Infiammazione della membrana.
– Febbre cerebrale.
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
– Morrà? Impazzirà?
– Mah!
– Morire, pare di no…
– Ma che dice? che dice?
– Sempre la stessa cosa. Farnetica…
– Povero Belluca!
E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.

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Paul_Gabriël_-_Landscape_with_a_train_-_Google_Art_ProjectPubblicata nel 1914, questa novella concentra molto del mondo esistenziale lasciatoci da Luigi Pirandello. E val sempre la pena presentarla ai ragazzi facendo leva anche sulla sua brevità, che ne consente la lettura anche all’interno di un’ora di lezione. La trama, che si presenta in modo disarticolato, con un andirivieni cronologico che l’insegnante avrà cura di governare, riguarda un impiegato di nome Belluca, presentato subito in un letto d’ospedale attorniato dai colleghi che lo giudicano matto perché si è ribellato al suo capoufficio con la motivazione che “un treno ha fischiato…”.

Il narratore ricostruisce le circostanza di questo presunto delirio. Belluca ha trascorso la sua vita da schiavo dei suoi doveri. Non ha fatto altro che accudire la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutt’e tre cieche. Poi due figlie vedove, l’una con quattro e l’altra con tre figli. Tutto sulle spalle di Belluca, che poi doveva anche subire i maltrattamenti del capufficio. Una vita impossibile. Una vita completamente alienata.

Lo scenario è tragico, ma la narrazione mantiene un registro tragicomico. I ragazzi ridono perché si figurano questo Belluca in una situazione paradossale: Tutt’e tre volevano essere servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva […] zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. L’insistenza del narratore su quella “sciagurata esistenza” è funzionale alla comprensione di quanto nel testo è già stato presentato: la ribellione ai doveri e la pazzia.

Perché Pirandello insiste nell’affermare che quanto accaduto a Belluca era un fatto “naturalissimo”? Quel che al senso comune sembra follia, allo sguardo acuto appare assolutamente naturale. È un tratto tipicamente pirandelliano che acquista valenza formativa per la sua capacità di far riflettere sulla dicotomia essere-apparire. Ciò che appare anormale è invece naturalissimo a chi vuole capire. E fin qui stiamo su un versante metodologico, per così dire. Ma cosa c’è da capire, nella fattispecie? Che un uomo può ridursi ad essere “circoscritto” e a vivere “col paraocchi”. Ci si può ridurre a vivere da sepolti con le orecchie tappate, con i sensi inerti. La vita scorre addosso e non ce ne accorgiamo. La routine ci schiaccia. Appariamo normali. L’idea della normalità borghese ha interpellato poeti e narratori della prima metà del Novecento e non cessa di interpellare il rapporto, tutto attuale, che i nostri ragazzi sanno intrattenere con “lo spettacolo della vita”, altrimenti chiamato nel testo il “mondo”.

Ascoltare un treno che fischia in sé non vuol dire nulla. Come non vogliono dire nulla mille gesti insignificanti della quotidianità.  Ma quello “sturarsi” delle orecchie e riconciliarsi con la vita, con le emozioni, con la fantasia, con l’immaginazione, quello vuol dire molto a chi soffre di noia e di apatia. Quante volte ci accorgiamo di… non accorgerci che esiste il mondo, le montagne, gli oceani, le foreste, le città, gli animali. L’io schiacciato di Belluca è come liberato dalla gabbia e, naturalissimamente, non può che ubriacarsi di questa sua nuova condizione. Che egli avverte come libertà. Nessuno e niente possono più schiacciarlo perché il treno ha fischiato e lui lo ha sentito!

Però l’approdo non è romantico. Belluca non lascia tutto e tutti e fugge via. Il narratore ci dice che Belluca “si sarebbe ricomposto”. Era la sbornia iniziale che lo aveva fatto esagerare. Ma pur ricomponendosi Belluca non sarà più lo stesso perché avrà imparato ad avere, all’interno dei suoi doveri, una vita interiore, una capacità emozionale, uno sguardo capace di stupirsi, come i due della dannunziana Pioggia nel pineto o come il fanciullino pascoliano, non casualmente testi afferenti alla stessa epoca. Questo decadentismo esistenziale italiano primonovecentesco continua ad interrogare ciascuno dei nostri ragazzi (le “vere” interrogazioni sono queste) sulla qualità e l’autenticità della propria vita interiore, che significa capire come possa essere avvenuto a uno come Belluca che “il mondo gli era rientrato nello spirito”.

E come potrebbe avvenire a ciascuno di noi, grandi e piccoli.

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