Il testo che segue inaugura “Squarci letterari”, una nuova rubrica di Tuttavia dedicata alla letteratura e a cadenza quindicinale. Questo appuntamento con la letteratura ha lo scopo di testimoniare come a scuola l’insegnamento letterario possa assumere valenza formativa. L’esperienza didattica insegna infatti che anche le scritture temporalmente più distanti, proprio per la loro distanza, contengono un potenziale formativo specifico, generatore di autoconsapevolezza. Saranno presentati e commentati periodicamente testi (o brani di testi) che si prestano efficacemente ad una lettura attualizzante o comunque significativa per il vissuto degli studenti.
Giacomo da Lentini – Io m’aggio posto in core a Dio servire
Io m’aggio posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco, ch’aggio audito dire,
u’ si mantien sollazzo, gioco e riso.
Sanza mia donna non vi voria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.
Ma no lo dico a tale intendimento,
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento
e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veggendo la mia donna in ghiora stare.
I “millennials” del nostro tempo – così vengono chiamati i nati dal 2000 in poi – sono lontani anni luce dal registro linguistico ed emotivo proposto dai testi della letteratura italiana delle origini. Proprio la distanza, invece, può assumere un carattere formativo per la sua capacità di istituire differenza. La coscienza della differenza, infatti induce a riflettere su se stessi e sul tempo in cui si vive.
In questo caso ci confrontiamo con questo sonetto di Giacomo da Lentini scritto intorno al 1235-40. Giacomo, notaio, fu funzionario di corte dell’Imperatore Federico II. Egli è tradizionalmente considerato l’inventore del sonetto, forma poetica che avrà tanta fortuna nella letteratura italiana.
Giacomo dichiara di avere come scopo della vita servire il Signore per ottenere il paradiso, individuato quale luogo del benessere (divertimento, gioco e riso). Ma questo benessere è legato alla presenza della sua donna. Con lei Giacomo vuole andare. Con quale intento? Qui il poeta vuole essere chiaro: il suo intento è di carattere contemplativo. Egli non vuole “far peccato” con la sua donna, ma contemplare la sua gloria (ghiora) in cielo.
Condividere testi del genere in classe significa evitare certamente derive nozionistiche e accademiche. Ed evitare altresì insistenze indebite su figure retoriche e formalismi stilistici. Il rischio sarebbe quello di ingenerare subito disinteresse. E il disinteresse, è ben noto, confligge con lo sviluppo di apprendimenti significativi. Semmai alcuni aspetti retorici e stilistici possono essere veicolati successivamente, quali dispositivi che incrementano il senso.
Cosa fare osservare?
Sul piano tematico, il dichiarato è evidente e di facile comprensione. Si tratta soltanto di sciogliere alcune antichità linguistiche (non troppe: aggio, teria, ghiora). Cosa vuole Giacomo? Stare in paradiso con la propria ragazza. Dove vuole stare oggi ogni ragazzo con la propria ragazza? E viceversa? É una prima domanda di ricognizione del senso. Si può osservare successivamente come il poeta, che nella seconda strofa ha usato il verbo “gaudere” e ha confessato di non poter vivere “diviso” dalla sua donna, nella terza fa una specie di excusatio non petita: non vuole farci peccato. La polarità tra “santo loco” e “peccato”, nell’immaginario del Duecento, in termini puramente letterali, risulterebbe del tutto insignificante per i nostri alunni. Purtuttavia è il caso di esplorarla.
Cosa intende per “peccato” il poeta? Cosa vuol dire con questo costrutto, che resiste nei secoli, il nostro Giacomo? E cosa potrebbe intendersi oggi? Le domande in classe è sempre bene non farle alla fine ma durante il percorso di apprendimento. Quanto più una lettura è socratica, tanto più è possibile suscitare discussioni e problematizzazioni tra i ragazzi.
Questa donna è bella, non c’è dubbio. É bionda, luminosa, ha un bel portamento ed uno sguardo definito “morbido” (definireste mai “morbido” lo sguardo di una ragazza o di un ragazzo? Quando?). Cosa dichiara di desiderare Giacomo? Il verbo si ripete due volte: è il verbo vedere (con la sua variante veggere). Egli vuole guardarla. Val la pena fermarsi su questo? La distanza sembra abissale. Cosa provate quando guardate la persona di cui siete innamorati? E riuscite a saziarvi di questo sguardo? Fa capolino un desiderio di “consumo”?
Queste domande possono aiutare a comprendere come si muove l’eros nel nostro tempo. Bandita ogni impostazione moralista, l’approccio è di carattere esistenziale e antropologico. Ma anche psicologico e sociologico, soprattutto se, come in questo caso, si sta lavorando in una classe del Liceo delle Scienze Umane.
Qualche alunna non crede alla sincerità di Giacomo. Fa bene. Vede un linguaggio manierato, e probabilmente ha ragione. Ma quest’alunna involontariamente ha colto il concetto di politicamente corretto. Alle volte ci si dà una posa e si dicono alcune cose perché si sa di essere apprezzati dall’ambiente che ci circonda. Nella fattispecie la corte di Federico II certamente doveva indurre pensieri “alti”. Però anche analizzare stereotipi e politicamente corretti è utile per scrutare l’immaginario dominante e constatare quanto ci si vuole adeguare e quanto – si pensi a Leopardi – lo si vuole contestare.
Giacomo ci ha condotti nell’eros politicamente corretto del Duecento, ma ci ha fatto riflettere sulla possibilità di trarre benessere e serenità dal guardare senza toccare. Non è poco.
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